Fotografate ciò che resta di questo derelitto, di questo uomo osceno. Sembrano dire i poliziotti, mentre lasciano entrare in modo indecoroso i reporter nella sua casa di Hollywood. Riceverà la grazia postuma per le accuse di oscenità nel 2003, trentasette anni dopo quell’evento.
Lenny Bruce è anche un personaggio di Underworld di DeLillo
Marinaio finto omosessuale, finto prete, tossicomane, padre della stand-up comedy, sboccato, censurato e condannato in vita per essere riabilitato dopo la morte (avvenuta per un’overdose di morfina). Oltre a tutto ciò, Lenny Bruce è anche un personaggio del capolavoro postmoderno di Don DeLillo: Underworld
Quella palla mai agguantata: la storica partita di baseball da cui comincia Underworld
È il 3 ottobre 1951. Al Polo Grounds di New York si gioca la partita di Baseball più sentita della stagione. È la finale del campionato nazionale, è il derby cittadino. Si affrontano i New York Giant contro i Brooklyn Dodgers in quella che è una partita che ha l’aria di essere segnata. Per i Giant non sembra esserci molto da fare: al nono inning sono sotto, la partita sta per finire e le persone iniziano a lasciare lo stadio. Quando in battuta va Bobby Thomson che, incredibilmente, riesce a battere un colpo “che avrebbe risuonato per tutto il mondo”, un home run, il fuoricampo della rimonta impossibile e della vittoria del campionato. Nella realtà quella palla fu colpita così forte che non solo uscì dalle dinamiche ufficiali del gioco, ma anche dalla storia: non fu mai né agguantata, né ritrovata. Nel romanzo, invece, la parabola sotterranea della palla, nei suoi passaggi di mano in mano, scandisce il ritmo della vita di molti uomini e donne e del loro tempo.
Quel baratro di annullamento: Il montaggio narrativo all’ombra del fungo atomico
L’atmosfera che si respira in Underworld è quella della Guerra Fredda: ci sono tante vite che si intrecciano e che, come in un mosaico, restituiscono uno spaccato caleidoscopico di un’epoca paranoica. La contrapposizione Noi-Loro, (tanto cara a Pynchon, altro maestro del postmodernismo), viene declinata con tutte le possibili scale di grigio. Eventi e vite subiscono un montaggio che sa di tendere verso quell’ambizione ordinatrice, tipica non solo del libro stampato, ma ancor più dei film: l’ambizione di dare un ordine obbligato nel tempo, contrastando il caos degli eventi; andando a scavare tra i pensieri e i momenti chiave di più vite, per accostarli e riflettere su cosa voglia dire ondeggiare sull’orlo di una catastrofe nucleare. Spinte e controspinte, momenti confusi da rischiarare col passato o col futuro, fascicoletti (quelli dedicati a Manx Martin, letteralmente stampati tra due pagine nere) come piccole icone di una archetipica, chiara e faticosamente raccolta vicenda eterna dei bassifondi, da cui si genera l’inizio e la fine di ogni certezza, compresi quelli relativi alla fatidica palla da baseball. Il tutto sotto un cielo pesante: un cielo scuro, denso di nubi cerebrali piene di fulmini; un cielo sbiadito e esangue, sotto il quale è già tanto avvertire il presente, esserci appena. Sotto questo cielo si muovono i personaggi e i lettori, più o meno volenterosi di interrogarsi riguardo la realtà celata sotto una percezione cosmetica; più o meno capaci di destreggiarsi nella tensione generata dai loro desideri collettivi e dai loro corpi singoli, fragili e solitari. Su tutto ciò incombe il fungo atomico, impresso in modo indelebile nell’immaginario collettivo e tutto si fa più eccitante; tutto perde di senso.
Desideri su larga scala
Nel piccolo si riflette il grande e viceversa: un’omologia di scambi e trasformazioni, un frattale che in modo intermittente arriva ad assomigliare ad un fiore di loto: piccolo, precario, effimero, perfetto. Tra i tanti personaggi e le tante spinte che portano o verso una deriva di smarrimento, o verso una momentanea lucidità assoluta, ci possiamo soffermare, in modo esemplificativo, su due tendenze, a cui poi Lenny Bruce darà voce e corpo con le sue performance: l’euforia di chi si muove sull’orizzonte degli eventi del buco nero-catastrofe; e la stanchezza blasé, la routine opaca e meccanica di chi apparentemente non rischia più di essere risucchiato dal buco nero, ma non può fare a meno di soppesarne l’eventualità.
«Sono i desideri su vasta scala a fare la storia». Possiamo prendere, come esempio emblematico delle forze “positive”, uno dei personaggi più importanti: Nick. In lui c’è una forza vitale che, similmente ai passaggi di mano in mano della palla, riesce a tenere insieme molti pezzi della storia. Nick tifava per i Dodgers, la squadra perdente della famosa partita, e nelle ragioni sotterranee del suo desiderare su larga scala, c’è anche la voglia di stringere nel palmo della mano quella palla, in una sorta di rivincita postuma, per superare un senso di sconfitta profonda e trasformarlo in storia positiva (cioè che torna a scorrere, oltre la paralisi dell’assenza-perdita, a cui, in modo latente ma magistrale, si affianca il trauma per l’abbandono da parte del padre che Nick ha vissuto da piccolo; trauma che alimenta la sua ambizione di dare ordine al caos). Nel Mondo che rischia l’autoannientamento, Nick incarna la resistenza inerziale, l’inclinazione di un carattere che per quanto cinico, riesce a coltivare la vita e la propria autorealizzazione.
Trionfo della morte
Oltre questi desideri, questo ideale rinascimentale dell’uomo che lotta per diventare artefice delle proprie fortune, ci sono la carne, la morte e il diavolo del Barocco. C’è la visione ipnotica in cui si perde il direttore dell’FBI, J. Edgar Hoover, dopo aver afferrato le due metà svolazzanti, durante il tripudio per la vittoria dei Giant, del dipinto Il trionfo della morte di Pieter Bruegel. Alla realtà dei tifosi festanti si sovrappongono le sue preoccupazioni per la minaccia sovietica e con essa un’orda di scheletri:
«Morti che sono venuti a prendere i vivi. Morti avvolti nel sudario, reggimenti di morti a cavallo, uno scheletro che suona l’organetto […] Edgar adora questa roba. Edgar, Jedgar. Ammettilo – ti piace molto. Ti fa venire la pelle d’oca. Scheletri col cazzo peloso. Scheletri che suonano il timpano. Il morto vestito di un saio che taglia la gola a un pellegrino […] Edgar pensa a una torre solitaria che si erge nel Kazakistan, nella zona degli esperimenti nucleari, una torre armata con la bomba, e riesce quasi a sentire il vento che soffia sulle steppe dell’ Asia Centrale, là dove vive il nemico in cappotto lungo e colbacco di pelo, parlando quella sua lingua antica, liturgica e grave. Che storia segreta stanno scrivendo? […] E qual è il rapporto tra Noi e Loro, quanti collegamenti troviamo nel labirinto neurale? Non basta odiare il proprio nemico. Bisogna capire che ciascuno dei due contribuisce alla completezza dell’altro. Morti di lunga data che fottono morti recenti. Morti che dissotterrano le bare. Sulle colline, morti che suonano vecchie campane incrostate, rintocchi per i peccati del mondo»
Queste visioni, a distanza di centinaia di pagine, vengono richiamate da una corrispondenza chiarificatrice in cui, durante un test nucleare, tornano gli scheletri mortiferi:
«Louis fa il suo finto conto alla rovescia e aspetta il flash. Un giovane forte e immortale in una nobile missione.
-Tre, due, uno.
Poi il mondo si illumina. Il corpo viene invaso da un bagliore che è come il tocco di Dio. E Louis riesce a vedere le ossa della propria mano attraverso gli occhi chiusi, attraverso lo spesso tampone piantato sulla sua faccia.
Giro la testa e tutto intorno ci sono scheletri che ballano nel flash. L’ufficiale di rotta, l’istruttore-ufficiale di rotta, l’artigliere di coda, povero stronzo. Siamo morti volanti […] Mi sembrava di volare dritto verso il giorno del giudizio con un reggiseno di nylon incollato alla faccia […] E io continuavo a vedere i morti volanti attraverso gli occhi chiusi, uomini scheletro con knee bone connected to the thigh bone, I hear the word of the Lord.
E pensavo che, essendo nero, sarei stato meno trasparente, più impenetrabile. E invece vedevo le mie ossa attraverso la pelle. Quel flash era troppo brillante per fare preferenze razziali.
Siamo tutti uguali agli occhi di Dio, e questo ci serva da lezione»
Il progresso tecnico degli ordigni atomici con le radiazioni mette a nudo lo scheletro umano, come a dire: stiamo volando in cielo e sganciando bombe in grado di annientare ogni cosa, siamo diventati noi gli scheletri del trionfo della morte, siamo noi l’intreccio di carne e tecnologia diabolica (duplice nel suo essere un bagliore divino e insieme la rivelazione degli scheletri che ballano). C’era stata già un’intuizione profetica in merito, fatta da Zeno Cosini nel libro del 1923 di cui è personaggio, che merita di essere riportata.
«Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi, si capisce che la sua furbizia cresce in funzione della sua debolezza […] Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati»
Ed è in questa proliferazione di ammalati che entra in scena Lenny Bruce, con la sua psicanalisi di gruppo.
Lenny Bruce sull’orlo della crisi: i missili cubani
È la notte del 22 ottobre 1962. L’America della solitudine cromata non riesce a prendere sonno a causa di un discorso tenuto dal presidente Kennedy e riguardante un’emergenza nazionale. Nel club notturno di West Hollywood ci sono personaggi di ogni genere, dai papponi, passando per gli sceneggiatori snervati, fino agli attori malaticci. Scioccati da parole come “attacco nucleare” o “rappresaglia totale” che ancora aleggiano nell’aria, hanno bisogno che qualcuno lenisca, se non la portata del rischio concreto, quantomeno la potenza che hanno i media di entrare anche nei sogni. I Russi avevano piazzato dei missili a Cuba, convinti che se poteva farlo l’America in Turchia, Italia e Gran Bretagna, potevano farlo anche loro. Poi, l’America aveva fatto quel goffo tentativo di invasione nella Baia dei Porci… Qualche azzardo, quindi, poteva permetterselo anche Chruščёv. Invece, nelle parole di Kennedy era aleggiato il rischio concreto di un’altra terribile guerra.
Allora c’è bisogno che qualcuno filtri quei messaggi; c’è bisogno di qualcuno i cui gesti e il cui pensiero possano funzionare come una “stazione di sosta per la distribuzione del tempo”, perché il tempo si è fermato su un baratro e prima che torni a scorrere serve una scossa, almeno per guardare la minaccia con meno paura; c’è bisogno di ridere, c’è bisogno di Lenny Bruce.
Lenny entra in scena e per prima cosa svita il microfono dall’asta per benedire il pubblico: inizia così questo rito laico e profano.
«Il pubblico aspettava che dicesse loro come si sentivano […] E Lenny ha un sorrisetto affettato sulle labbra mentre li guarda, come se vedesse fino in fondo il centro molliccio e appiccicoso della loro anima collettiva […] E tutti hanno bisogno che Lenny li aiuti a compiere la transizione, a passare alla cosa totale e globale che sta succedendo là fuori»
È questa la dimensione ideale del comedian: l’orlo del baratro, la zona liminale tra coscienza e sogno, un pubblico che anela parole come aghi che possano sgonfiare l’enfasi della catastrofe: il tempismo perfetto, più la tragicità dell’evento. Poi, finalmente, questo magnifico Lenny Bruce ricreato da DeLillo parla, e lo fa con le parole usate da Kennedy per rivolgersi alla nazione: «buona sera, concittadini». Ma non vuole fare imitazioni, non è il momento degli act-out. E allora frena le risate e si lascia andare al suo stile comico-jazzistico
«Capito, ragazzi? E devo dire che a un certo livello mi prende. Essere sul filo del rasoio. È una bella botta, ragazzi. Potete dire quello che volete a proposito di vivere al limite estremo. Sì, lo so, fumate un po’ d’erba il sabato sera. Per essere à la page. In più, una sera vi è capitato di attraversare Watts in macchina e non riuscite a smettere di parlarne. Vi ha fatto accapponare la pelle. Tutti quei negri con i loro cappelli bassi e rotondi. No, lasciate che ve lo dica, il limite estremo è questa roba qui. Il vero estremo non è dove scegliete di vivere voi, ma dove vi sistemano loro, contro la vostra volontà. Questo evento è infinitamente più profondo e più elettrizzante di qualsiasi cosa possiate mai decidere di fare in vita vostra. E sapete cos’è? Sapete di cosa si tratta? Si tratta di ventisei ragazzi di Harvard che decidono del nostro destino»
Poi c’è un po’ di improvvisazione chiusa da un callback, un richiamo alla battuta d’apertura “buona sera, concittadini” (cosa che fa capire come DeLillo, già nel 1997, aveva potuto assimilare e codificare i meccanismi della stand-up comedy, con i quali, nell’ Italia del 2021, abbiamo iniziato a famigliarizzare da poco).
Poi Lenny, davvero elettrizzato perché è proprio quella la situazione in cui uno come lui può esaltarsi, si lascia andare alla battuta più stridula della serata, alla quale non riesce a resistere neanche lui, piegandosi in due dalle risate, riprendendola diverse volte, come un mantra-culla di tutte le risate: «Moriremo tutti quanti!».
«Un’ora più tardi, dopo tutti i numeri, le divagazioni scatologiche, le voci improvvisate, fu questa battuta isolata a restare impressa nella mente degli spettatori […] Così girovagarono per metà della notte, cupi, all’inizio, poi arrabbiati, poi fatalistici e infine tremanti di paura, il cuore stretto dalla consapevolezza di com’era facile far succedere la cosa – la prima notte sulla terra in cui l’Impensabile saliva strisciando all’orizzonte, e attesero accovacciati come animali, e mentre guidavano continuavano a sentire il canto funebre di quell’inconfondibile voce ebrea che ripeteva la battuta che li aveva fatti spanciare dalle risate, incredibilmente, solo poche ore prima»
Lenny è riuscito a sintetizzare, veicolare e far deflagrare, la complessità degli eventi in una frase, una battuta. Ha dato un’incredibile spinta al logos politico del presidente, facendolo diventare presa di coscienza.
Lenny Bruce a crisi scampata: distruggere il monologo per suggerire un nuovo senso di precarietà
Il 29 ottobre 1962, una settimana dopo, DeLillo fa tornare il suo comedian a New York, il “grembo della coscienza” per uno speciale di mezzanotte alla Carnegie Hall, non più un piccolo club quindi. Fuori piove a dirotto ma la sala è gremita, ci sono più di tremila persone e lui solo sul palco: “Lenny Bruce in concerto”.
«Lenny guardò su e giù, a destra e a manca.
-Che razza di settimana, folle e morbosa. Siamo tutti stremati, coi nervi a pezzi. C’è mancato un pelo che ci facessero saltare in aria. Ma adesso, ma adesso, ma adesso […] Non moriremo tutti quanti!»
È cambiato il luogo, il pubblico, il momento storico. Sembra quasi non esserci più niente da dire. Gli uomini della Ivy League li hanno salvati. Lui, come comico, non riesce più ad attingere materiale da quella riserva infinita della paura e della morte. E, da comico scafato qual è, solo per il fatto di parlare su un palco, sa di incarnare il pericolo scampato. C’è lui, nella sua autorealizzazione da artista, che inizia lo spettacolo pieno di entusiasmo ma ad ogni battuta perde un po’ di verve, della sua voglia di provocare e sovvertire le strategie comiche, e quindi finirà per affidarsi alla routine dei cavalli di battaglia, delle vecchie battute, quelle che funzionavano benissimo nel mondo lontano dal collasso. Già, probabilmente non moriranno tutti quanti. Ed è il pubblico, questa volta, che conduce lui ad una presa di coscienza, e non viceversa. Questo non è un pubblico che ha paura, al massimo è un pubblico che si scandalizza. Ci sono i suoi fan, ragazzini adolescenti che imparavano gli spettacoli registrati su nastro a memoria: «Lenny era il loro tagliatore di diamanti, il loro maestro di verità nascoste, insensibile al proprio destino». C’è anche gente stanca della comicità ordinaria, «gente che voleva essere sfidata e attaccata, che voleva vedere le proprie buone intenzioni denunciate come stupide chiacchiere mondane. Lenny svitò il microfono dall’asta e li benedì tutti quanti». Lenny va avanti con lo spettacolo, prova a raccontare una sorta di parabola su un barbone che lo aveva fatto riflettere molto: il pubblico rimane freddo. Gradualmente comincia a capire che dal ruolo di interprete della coscienza collettiva è stato nuovamente relegato a quello di professionista della risata. Non c’è più bisogno della risata come mezzo ma solo come fine. Lenny inizia a deprimersi.
«“Dovrei raccontare barzellette su quanti polacchi ci vogliono per avvitare una lampadina”. Una risata, finalmente. “Dovrei stare qui a raccontare barzellette sui camerieri cinesi”. Raccontò una barzelletta su un cameriere cinese. Accolta da una grossa risata. Fece una miscellanea di pezzi da film e il pubblicò l’apprezzò moltissimo. Ripeté le classiche gag […] Fece i vecchi pezzi con pungente ironia ma la cosa servì solo a rendere più divertenti i pezzi e a deprimere lui ancora di più. Loro ridevano, lui sanguinava. Lenny stava da cani. Avrebbe dovuto sentirsi felice e rivitalizzato. Erano scampati tutti quanti a una settimana infernale e lui si era trascinato da un impegno all’altro, da una costa all’altra, in uno stato di crescente sconvolgimento, e adesso che era finita ed era finalmente al sicuro e si esibiva addirittura in concerto, avrebbe dovuto essere lì a cantare Non moriremo tutti quanti Non moriremo tutti quanti Non moriremo tutti quanti, guidando il pubblico in coro, in un mantra che fosse giocoso e derisorio allo stesso tempo perché questa è New York, New York e vogliamo tutt’e due le cose. Quando credeva che sarebbero morti tutti quanti, Lenny aveva intonato ripetutamente la battuta della morte. Ma questa storia ormai era finita. Se l’era completamente scordata. C’erano altri problemi, più profondi, più indefiniti. Tutto, niente, lui»
Lenny lo ammette davanti a quel pubblico: è lì per essere amato in modo incondizionato (vorrebbe tornare al suo ruolo di guida dello spirito collettivo). E quindi fa un ultimo tentativo, il più rischioso ma l’unico che può tentare dalla sua posizione: dare al pubblico quello che vuole, una storia scabrosa, impudica e provocante per poi far crollare tutta l’impalcatura, cancellare la storia e sperare che, facendo collassare il loro desiderio che la vicenda vada avanti, facendo “scoppiare” la storia e vacillare il loro senso di realtà, possa essergli restituito il ruolo di guida e profeta di quando erano sull’orlo del disastro nucleare. Passa quindi a un pezzo a cui aveva pensato prima di quella «stronzata» di crisi missilistica. Inizia a raccontare una storia scabrosa su una ragazza di campagna con un dono grottesco che alcuni interpretano come miracoloso (ed è facile intuire come Lenny stia sviluppando in figura una sua autoanalisi). La ragazza viene comprata dal bordello in cui lavora da un miliardario che cerca di incivilirla e ci riesce. Trasforma il suo dono grottesco in abilità nel suonare l’oboe. L’uomo vuole sposarla ma inizia ad essere pieno di dubbi: forse ha distrutto una «strana, rozza perversione, bellissima e inquietante, per rimpiazzarla con un noioso oboe». Il riccone la sposa ma la prima notte di nozze si azzarda a chiedere alla ragazza di mostrargli quel dono che, spendendo moltissimo, lui le aveva fatto dimenticare. Ed è a questo punto che Lenny si blocca.
« “Aspettate un momento, ascoltate, no. Il miliardario è un mito giusto? […] Ce lo siamo inventato. Questa volta diremo la verità”. Intuì una certa delusione tra il pubblico. Loro volevano la prima notte di nozze […] “Diciamo la verità,” fece Lenny. “Nessuno salvò la ragazza da una vita di perversione” […] Stava proprio guastando il divertimento a tutti. “Rendiamola umana. La ragazza è umana come noi […] Diamole un nome”. Ma Lenny non le diede un nome. Non gli veniva in mente nessun nome. Nessun nome vero. Così tornò alle vecchie barzellette […] e tutti risero perché era davvero divertente […] e lui ritrovò la strada verso la vecchia forma»
Salvo poi, a fine spettacolo, dirigersi «pieno di rimorso» verso le quinte.
Curiosità
È veramente difficile per un comico creare una storia, dichiararla falsa e continuare a rimanere simpatico. Questo perché il pubblico si sente ingannato e il legame empatico dell’attore, che per essere ascoltato deve essere credibile, guadagnarsi la fiducia, crolla immancabilmente. Anche se ci sono delle rare eccezioni in cui alcuni comici hanno sperimentato questa tecnica e sono riusciti a rimanere credibili. Ne è un esempio questo spezzone di Louis C. K. (precisamente al minuto 3:44).