A cavallo tra Perù, Ecuador e Bolivia, sugli altipiani delle Ande, vivono alcune popolazioni indigene accomunate dal ceppo linguistico da cui traggono il nome: i Quechua.
Il nome “quechua” fu in realtà mutuato dallo spagnolo: si tratta, infatti, della trascrizione spagnola del termine “qishwa”, “zona temperata”. In origine, invece, l’idioma si chiamava “runa simi”, vale a dire “linguaggio dell’uomo” (espressione con la quale gli Incas si riferivano alla lingua popolare; quella dei ceti sociali più agiati era, invece, una variante segreta detta “inca simi”).
Anche se ad oggi la lingua quechua è declinata in una miriade di dialetti (a volte tanto diversi che la reciproca comprensione risulta impossibile), rimane il suo elevatissimo valore storico- culturale: era l’idioma più diffuso nell’Impero Inca, che la elevò a sua lingua ufficiale (ma la parlavano anche alcune popolazioni nemiche, come gli Huanca), diffondendola anche in Bolivia ed in Ecuador. La sua rilevanza ha, però, anche portata più attuale: con circa nove milioni di persone tra Ecuador, Cile, Colombia, Argentina, Perù e Bolivia che lo parlano (peraltro, negli ultimi due Paesi citati è anche lingua ufficiale), il quechua è la lingua nativa americana più diffusa al mondo.
L’eredità quechua, però, è molto più che questo: essa si configura piuttosto come un profondo sostrato culturale, comune (pur se con alcune varianti) a tutti i gruppi etnici oggi riuniti sotto questa definizione. Tradizionalmente, le comunità appartenenti a questo ceppo sono improntate su base locale, fondando la propria economia sullo sfruttamento delle risorse del territorio: mediante colture (prevalentemente cerealicole) nelle regioni meridionali e, in quelle più a nord, attraverso l’allevamento, specie di lama, alpaca e maiali.
Normalmente, i terreni coltivati appartengono alla comunità, detta “ayllu”, e la loro coltivazione avviene o congiuntamente ad opera di tutti oppure previa distribuzione annuale delle terre. Due sono i modelli di suddivisione del lavoro previsti: il “minka”– in cui si svolge assieme un progetto di interesse comune- e il cosiddetto “ayni”, fondato sull’assistenza reciproca (in esso, si partecipa ad un’opera intrapresa da una singola famiglia, con l’intesa di ricevere poi aiuto nella realizzazione di un progetto analogo).
A partire dal periodo coloniale, tuttavia, gli equilibri di queste comunità hanno iniziato a vacillare: ciò a causa dell’appropriazione della maggior parte dei terreni coltivabili ad opera di grandi latifondisti, sfruttando il lavoro delle popolazioni indigene in maniera sempre più pesante; ne sono derivate, nei secoli, molteplici rivolte contadine, sedate con violenza. In seguito alcune riforme normative (quella boliviana del ’52, la peruviana del ’68) stabilirono la restituzione di parte dei terreni agli indigeni. Il distacco dalla terra ha però comportato comunque un’erosione della struttura sociale tradizionale di difficile riparazione.
In tempi più moderni, il fenomeno è stato inoltre aggravato dallo sfruttamento, in molte aree, di giacimenti petroliferi, nonché dalla crescente deforestazione e dal narcotraffico. Disgregatesi dunque la maggior parte delle “ayllu”, in tantissimi si sono spostati verso le grandi città, come Lima e La Paz.
L’arrivo dei conquistadores ha inciso fortemente anche sull’aspetto religioso. Sin dal periodo coloniale, infatti, si è imposta per le popolazioni andine la religione cattolica. Tuttavia, permangono elementi degli antichi riti locali (talvolta mescolati con altri di derivazione cristiana): si pensi al culto della Madre Terra, Pacha Mama, cui tuttora vengono presentate periodicamente offerte; al mito degli apu, gli spiriti della montagna; alla leggenda di Viracocha, considerato il creatore della Terra. Altri miti sono collegati alle sofferenze patite dai Quechua a partire dal periodo coloniale: è il caso di quello di Nak’aq o Pishtaco, “il macellaio”, che uccide gli indigeni per poi succhiar via il grasso dai loro cadaveri, o della festa in cui un condor (simboleggiante gli Incas) viene legato alla schiena di un toro (che rappresenta gli spagnoli) e poi liberato, rievocando le feroci battaglie tra i due popoli.
Attualmente gli appartenenti ai gruppi etnici Quechua costituiscono il maggiore gruppo etnico di Perù, India ed Ecuador; seguono i mestizos- di origini per metà spagnole e per metà Quechua-, una minoranza Aymara (indigeni che parlano l’omonima lingua, residenti tra Perù, Bolivia, Cile ed Argentina), mentre solo una piccola parte della popolazione è rappresentata dai creoli (di origine spagnola). Ciò nonostante, forse a causa di retaggi dell’epoca coloniale, questi ultimi continuano a mantenere un atteggiamento da classe dominante, con atroci episodi di discriminazione nei confronti degli indios, spesso costretti a vivere in condizioni di emarginazione nelle periferie dei grandi centri urbani.
Le persecuzioni nei loro confronti hanno negli anni mietuto moltissime vittime: il conflitto (che riguardava prevalentemente creoli e mestizos) tra il governo peruviano e l’organizzazione sovversiva Sendero Luminoso ha provocato, negli anni ’80, 69.280 morti o desaparecidos, tre quarti dei quali erano Quechua.
Ancora in Perù, nel 2002 l’ex Presidente Fujimori e tre ministri della Sanità sono stati accusati di genocidio, attuando un piano di sterilizzazione tutt’altro che voluntaria, come recitava il programma, ma al contrario forzata, ai danni soprattutto delle donne Quechua e Aymara (causando la morte di alcune di esse). Infatti, pare che dietro il dichiarato fine del contenimento delle epidemie ci fosse piuttosto quello della riduzione delle nascite tra le fasce meno abbienti della popolazione. La questione, peraltro, era già stata portata all’attenzione del grande pubblico nel 1969, ad opera del regista boliviano Sanjines con la pellicola Yawar Mallku, girata proprio in quechua.
Il Presidente dello stesso Paese- ma la discriminazione a danno dei Quechua non è, purtroppo, limitata entro i suoi confini-, Hildebrandt, ed il ministro Torres Caro rifiutarono il giuramento dei neoeletti membri Hilaria Supa Huamán e María Sumire, perché declamato in quechua.
Quelli qui riportati sono solo alcuni tra gli episodi più eclatanti; la discriminazione verso questi gruppi etnici, però, come sempre accade, viene perpetrata nel quotidiano e genera le piaghe della povertà e dell’impossibilità di realizzare la coesione sociale. Se tutto questo dovesse continuare, i danni, però, non si ripercuoteranno quindi sui soli Quechua: porteranno ad un impoverimento culturale di cui soffriranno le culle della loro società in primis e, poi, l’umanità intera.
Lidia Fontanella
I diritti dei popoli indigeni vanno riconosciuti e tutelati. Non solo rappresentano una parte essenziale della diversità umana ma hanno moltissimo da insegnarci, anche in vista del grande cambiamento di paradigma ambientale di cui abbiamo un crescente bisogno a livello globale! http://www.survival.it/notizie/11669