Quasi guerra tra Armenia e Azerbaigian

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Michele Marsonet Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane Ultima Voce

Michele Marsonet

Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane


L’attuale situazione nel Caucaso, con il crescente conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh, è una preoccupante manifestazione di tensioni storiche, rivalità etniche e interessi geopolitici complessi. La guerra tra Armenia e Azerbaigian rischia di sfociare in una guerra aperta, poiché entrambi i paesi hanno radici nell’ex Unione Sovietica, ma le differenze culturali, religiose e territoriali hanno alimentato questo conflitto che sembra ora rischiare di assumere proporzioni sempre più gravi.

Come molti osservatori avevano previsto, il lungo conflitto tra Armenia e Azerbaigian rischia si sfociare in guerra aperta. Oggetto del contendere è ancora una volta il Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli armeni), enclave armena in territorio azero. Le truppe di Baku hanno infatti lanciato una pesante offensiva che i difensori armeni non sembrano in grado di contrastare con efficacia.

Le due Repubbliche caucasiche, entrambe ex sovietiche, combattono da anni per il controllo della suddetta enclave (con popolazione armena). In precedenza l’Armenia poteva contare sull’appoggio russo. In questo periodo, tuttavia, Putin è impegnato allo spasimo in Ucraina e non può intervenire. C’è una piccola forza d’interposizione russa nel territorio, ma sembra condannata all’impotenza.

Quella armena è una della più antiche comunità cristiane del mondo, come testimoniano le numerose chiese, molte delle quali situate proprio nella enclave contesa. Gli azeri sono invece musulmani e turcofoni, e non hanno mai accettato la presenza armena in un territorio che considerano loro, e che fu per l’appunto attribuito all’Azerbaigian da Stalin.

Tra i due Paesi c’è un odio antico. Durante una mia visita all’università di Baku, la capitale dell’Azerbaigian, continuavo a imbattermi in chiese armene con le porte sbarrate da assi di ferro, mentre i colleghi azeri non perdevano occasione per dirmi che gli armeni vincevano solo grazie all’appoggio russo.

Ora la vendetta sembra compiersi. Mentre gli armeni hanno uno sponsor debole, molto forte invece lo sponsor degli azeri, e cioè Erdogan uscito ancora vincitore dalle ultime elezioni, e impegnato a rafforzare i rapporti con i molti Stati turcofoni dell’area. I turchi hanno rifornito gli azeri di droni e di armi pesanti in quantità.

A Erevan il presidente Pashinyan è sotto attacco da parte dei nazionalisti armeni che vorrebbero combattere fino all’ultimo, ma si trova in una situazione di inferiorità. Com’è noto, la Turchia non ha mai riconosciuto il genocidio armeno del 1915, e molti ora temono che i nuovi scontri siano il preludio di una nuova “pulizia etnica” anti-armena.

Difficile la posizione dell’Occidente di cui gli armeni invocano l’aiuto. Ci sono state esercitazioni militari congiunte Usa-Armenia, ma gli Stati Uniti non hanno una tradizione d’intervento nel Caucaso ex sovietico.

Anche l’Unione Europea può fare poco, giacché (a differenza dell’Armenia) l’Azerbaigian possiede enormi giacimenti di petrolio ed è uno dei principali fornitori della UE. Non a caso, Ursula von der Leyen si è recata a Baku per firmare un importante accordo di forniture petrolifere.

Situazione difficilmente gestibile, quindi, con il rischio che nel Caucaso scoppi presto un’altra guerra che andrebbe ad aggiungersi al conflitto ucraino.

 

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