Che grande tristezza questo voto sulla Brexit, quasi una pietra tombale sui sogni che avevano da ragazzi, noi che ascoltavano la sera Radio Luxembourg (trasmetteva le novità musicali british) e che racimolavano i soldi per andare a Londra dopo Natale.
Il biglietto aereo più economico costava 25500 lire. Ma si risparmiava se si partiva in auto – in quattro nelle minuscole 500 e Mini di allora.
Si affittavano stanze, si mangiava poco per non spendere troppo, la sera però ci si ficcava al Marquee, al Samantha, al…maledizione, la memoria mi tradisce, era un locale frequentato dai francesi…ah no, ecco, ora mi ricordo: il Kilt…
Londra era la città mito, più di Parigi che ci pareva una grande Milano e New York era davvero su un altro pianeta, ci saremmo andati coi primi stipendi, così ci ripromettevamo.
Ma Londra, la strada da Dover, la breve sosta a Canterbury, i sobborghi, l’arrivo in città, i bus a due piani, i taxi neri antiquati ma fantastici, la ricerca dell’alloggio prenotato mesi prima, i sorrisi delle ragazze, la City, i compassati impiegati delle banche con le bombette e gli abiti scuri, quell’accento che a scuola non ci avevano insegnato…infatti io ho odiato sempre l’inglese…ma le mille “Londre” rappresentavano una società più libera della nostra, una comunità di mille comunità, un modo cioè di vivere e convivere…ma dietro questo superficiale affresco da turista spensierato scoprii che la nuova, ideale Inghilterra celava insofferenza e disperazione, annegata nei pub, assordata dal rock, ai margini del centro in cui vagavano milioni di persone che ora so erano già allora abbrutite dai consumi di massa, dalle illusioni borghesi, dal disincanto.
Già, proprio il disincanto che oggi abbiamo nei confronti della politica e delle sue false promesse.