Il push back, la vostra ipocrisia ha finalmente un nome

push back

In un periodo in cui la maggiore scusa dei conservatori è che “non si può dire più niente” è importante specificare cosa si può, e si deve, dire. Ecco allora la definizione di molte delle “politiche sull’immigrazione” degli opinionisti da bar.

Push Back, letteralmente “respingere”. Vi evito le varie implicazioni areonautiche di tale termine, poiché, naturalmente, non sono argomento di trattazione di tale articolo. L’accezione che a noi più interessa è quella di “respingimento illegale”.

La definizione e la posizione dell’UE

Un push back è quindi ciò che accade in tutti i casi in cui persone, per lo più migranti, vengono “riportati al paese loro”, in qualsiasi forma questo gesto accada. L’Unione Europea lo definisce in questo modo:

Le varie misure adottate dagli Stati, a volte coinvolgendo paesi terzi, che consistono nel respingimento forzato delle persone che tentano di attraversare una frontiera, sia essa di terra o, nei casi di cui siamo testimoni, di mare. Senza valutazioni delle loro necessità, violando i loro diritti e ogni esigenza di protezione umanitaria.




Tenere delle OMS in mare per mesi, lasciando diverse persone malate a bordo senza l’adeguata assistenza sanitaria, è un chiaro esempio di push back. Le politiche attuate da Trump, e non solo, al confine con il Messico sono un esempio di push back. Al confine ispanico-marrocchino, ad esempio, questa pratica è praticata frequentemente da anni, ed ha subito anche diverse condanne da parte dell’UE.

Le condanne dell’Unione d’altronde risultano quantomeno ironiche, per non dire ipocrite, alla luce degli accordi stipulati con Libia e Turchia. Bisognerebbe chiedere all’UE se la guardia costiera libica, finanziata dall’Italia, che affonda barconi e riporta a riva migranti, compia atti di push back. Nel caso, inoltre, bisognerebbe anche interrogarsi sul perché tali atti non vengano condannati.



Il caso della Turchia

Andrebbe inoltre analizzato sotto tale luce il caso turco. In questa particolare situazione sembra che l’UE si sia tutelata dal mettere in atto il push back, pagando il Governo di Erdogan per trattenere sul proprio suolo ben quattro milioni di migranti siriani. Proprio oggi, al vertice europeo di Bruxelles, verrà discussa una proposta per inviare altri tre miliardi di euro alla Turchia, con lo scopo di rinnovare i patti.

Dall’inizio della crisi migratoria, nell’ormai lontano 2015, lo Stato mediorientale ha ricevuto ben 7.4 miliardi di euro. Nonostante ciò Erdogan non sembra intenzionato a spendere soldi per costruire strutture di accoglienza adeguate. Le immagini dalla Turchia parlano di veri e propri campi di concentramento, in cui i profughi siriani si ritrovano a subire violenze fisiche e psichiche degne dell’immaginazione più macabra.



Un push back d’intenzione

Niente azioni di push back  da parte dell’UE quindi, che preferisce pagare violenti dittatori mediorientali piuttosto che riconoscere un problema ormai consolidato. E se l’ipocrisia dell’Unione Europea è smascherata ormai da anni quella dei nostri concittadini è ancora difficile da accettare. Sempre più spesso infatti ci si può imbattere nell’ormai mitologico “non sono razzista ma…”. L’unica chiusura degna per una frase del genere è “sono razzista”.

Dire tali frasi, affermare che starebbero meglio al loro paese che in questa Italia (dimostrando conoscenze geopolitiche nulle) e guardare male gli immigrati sono soltanto altri atti di push back. La differenza sta nel livello a cui si attuano tali atti, visto che azioni del genere agiscono a livello psicologico. E attenzione che le succitate non sono azioni commesse soltanto dai razzisti, ma sono commesse da tutti, giornalmente.

La vera integrazione non è accogliere qualcuno in casa propria e poi guardarlo male al supermercato perché pensiamo abbia rubato qualcosa. Tanto meno si può considerare integrazione l’accettare qualcuno soltanto perché se ne parla molto, in questo caso i migranti provenienti dall’Africa, per poi guardare con disprezzo agli altri abbandonati dall’opinione pubblica.

Marzioni Thomas

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