Da diversi giorni si segnalano diffuse proteste in Iraq. Molte di queste sono degenerate in scontri anche violenti con le forze di sicurezza. Il bilancio è già salito ad un centinaio di vittime e le rivendicazioni della piazza non sembrano essersi placate.
Proteste in Iraq – Il contesto interno
L’Iraq è un paese che non ha pace da ormai quarant’anni. Prima la durissima guerra all’Iran scatenata da Saddam nel 1980, durata 8 anni e costata centinaia di migliaia di vittime. Poi l’invasione del Kuwait e conseguente intervento della coalizione internazionale. Successivamente le durissime sanzioni dell’ONU e le guerre civili interne, contro la guerriglia sciita nel sud e curda nel nord-est. Nel 2003 l’invasione statunitense e poi la controguerriglia e l’insorgere di formazioni jihadiste quali l’ISI di al-Zarqawi. Infine la nuova guerra interna per debellare lo Stato Islamico nel nord del paese e i migliaia di civili costretti a lasciare le loro case.
Tutto questo ha inevitabilmente prodotto la sistematica distruzione del tessuto industriale, produttivo e sociale iracheni. La povertà diffusa, la mancanza di prospettive, le atrocità, le divisione settarie ed etniche non hanno fatto altro che aumentare e rendere esplosivo il malcontento di generazioni che non hanno conosciuto altro che guerra. La sedimentazione di tutto questo ha infine trovato voce. Già lo scorso anno si erano verificate manifestazioni e scontri con i manifestanti che chiedevano migliori condizioni di vita e puntavano il dito contro l’endemica corruzione.
Sono queste le stesse ragioni che oggi spingono molti giovani nelle piazze delle maggiori città, in particolare nel sud del paese. L’Iraq ha un’età media della popolazione molto giovane (circa 20 anni) e sono proprio i giovani i maggiori animatori di queste proteste. Chiedono il ripristino immediato dei servizi essenziali: l’acqua potabile è molto spesso un miraggio così come l’accesso alla corrente elettrica, ormai razionata durante il giorno. Rivendicano inoltre la possibilità di un più generale miglioramento delle condizioni di vita, accusando governo centrale e funzionari amministrativi di una corruzione che starebbe mangiando il paese: le ricadute delle entrate petrolifere sembrano non toccare una larga parte della popolazione, costretta ad una disoccupazione dilagante.
Il monito delle Nazioni Unite
Questa virulenta esplosione di rabbia ha già causato almeno cento vittime in pochi giorni e nonostante l’oscuramento di internet le proteste continuano. Consapevole della cronica instabilità del paese l’Onu ha parlato attraverso il rappresentante speciale per l’Iraq, Jeanine Hennis-Plasschaert, che ha detto “cinque giorni di morti e feriti, questo deve finire”. All’ONU vi è infatti la consapevolezza che queste nuove proteste in Iraq possano sfociare ben presto in altro. Non a caso qualcuno l’ha già definitia come una nuova “primavera araba”.
Data la recente storia del paese, fatta di conflitti e scontri settari tra il sud sciita e il nord sunnita, il timore è quello di una settarizzazione delle proteste e la possibilità di infiltrazioni in grado di rendere le manifestazioni ancor più violente. E come se non bastasse il governo deve fronteggiare anche altri problemi. Nel nord del paese, dopo il referendum curdo sull’indipendenza del 2017, rimane tesa la situazione tra Baghdad e le autorità di Erbil. I curdi infatti hanno il controllo dei pozzi petroliferi nei pressi di Kirkuk, tra i più importanti dell’Iraq.
Un altro problema è rappresentato dal contesto regionale e dalla vicinanza del governo di Baghdad alla Repubblica Islamica dell’Iran. Nell’ultimo periodo sono infatti arrivati raid israeliani contro le PMU (Unità di Mobilitazione Popolare), una milizia a maggioranza sciita accusata di essere la longa manus di Teheran. E in questo contesto potenzialmente esplosivo il Grande ayatollah Ali al-Sistani, massima autorità religiosa sciita in Iraq, ha espresso la sua vicinanza ai giovani nelle piazze.
Davide Di Legge