Dalla rabbia per la morte della giovane Mahsa Amini alle proteste in Iran contro il regime dei mullah.
Nel frattempo, però, i morti e i feriti negli scontri continuano ad aumentare ed ogni informazione, trapelata sempre con maggiori difficoltà, si infrange nella sommarietà. Se le notizie principali sono offuscate dai tentativi del regime di non farle fuoriuscire, ancora meno affidabili devono ritenersi quelle trame cospirazioniste che trovano negli eventi nebulosi la loro linfa vitale. Tra le ombre di un simile scenario, l’unico faro sicuro, da proiettare verso l’immediato futuro, non può che essere la storia. Com’è noto, questa autorevole maestra, ferme restando le sue innumerevoli virtù, non ha mai perso il vizio della ripetitività. Nel guardare le rivolte delle ultime settimane e nell’interrogarsi sul loro destino infatti, non si può prescindere dalle proteste e dalle tensioni che hanno portato alla rivoluzione iraniana del 1979, con la quale è nata la repubblica islamica che ancora oggi resiste.
Il potere autocratico dello scià Reza Pahallavi
Prima dell’avvento del regime teocratico, il potere era incentrato nella figura dello scià Mohammad Reza Pahlavi, figlio dell’omonimo autore del colpo di stato del 1921. Il sistema autocratico gli permise di perseguire un ambizioso programma, denominato “rivoluzione bianca”, con il quale cercò di portare avanti il progetto paterno di modernizzazione del paese. Il regime dello scià aveva l’appoggio delle potenze occidentali, con le quali esistevano accordi riguardanti i giacimenti petroliferi iraniani. Proprio all’Occidente era legato l’ammodernamento del paese, ma soltanto da un punto di vista “estetico”, importando le mode ed i beni di consumo, evitando, però, che il suo potere venisse contaminato da elementi democratici. Il regime dello scià, infatti, era dittatoriale e caratterizzato da un assoluto distacco dalla popolazione. Questa era sicuramente una delle cause dell’enorme disparità tra le classi sociali e della dilagante povertà del paese, il quale era anche vessato dalle continue repressioni e da una totale assenza di libertà. L’eliminazione del dissenso avveniva attraverso la Savak, ovvero la polizia imperiale che si occupava della censura dei media e della cultura, ma soprattutto dell’esecuzione degli oppositori del regime. Dopo la deposizione di Mohammad Mossadeq, primo ministro che aveva tentato di nazionalizzare l’industria petrolifera, il clima di tensione che pervadeva l’intero paese si intensificò al punto da fornire l’impulso per i numerosi interventi che inasprirono il sistema autocratico. Infatti, la maggior parte del denaro derivante dal petrolio fu investito per la spesa militare, mentre altri flussi monetari, invece, furono destinati al tentativo di industrializzazione del paese che si rivelò però fallimentare, provocando l’aumento dell’inflazione e molteplici espropriazioni.
Le principali cause della rivoluzione del 1979
In una simile situazione di totale lontananza del popolo dai vertici e nella povertà dilagante, il dissenso cominciò a farsi strada, nonostante la repressione di ogni forma di protesta. I dissapori della popolazione, stremata e ridotta alla fame, furono intercettati dal clero sciita, nemico e oppositore dello scià, da sempre ostile e preoccupato dal tentativo di laicizzazione dello stato da questi portato avanti. In particolare, l’ayatollah Ruhollah Khomeini rappresenta la figura chiave degli eventi che portarono alla caduta del regime. Le sue straordinarie capacità oratorie riuscirono a rivestire le proteste popolari di carattere religioso, tramutando la ribellione del popolo in una rivoluzione islamica. Lo scià, oltre ad aver assunto un atteggiamento distaccato nei confronti degli iraniani, aveva anche attentato alla loro identità, calpestandola al fine di favorire un’occidentalizzazione forzata che, insieme alla condizione di miseria cui erano ridotti, rappresentava una delle ragioni principali delle ostilità nei confronti del sovrano. Questa identità tradita venne ritrovata nel clero sciita, il quale fu in grado di dare un’articolata struttura al dissenso, creando una solida contrapposizione al potere che si voleva rovesciare. Così ogni critica al regime si insinuò tra le intercapedini del robusto sistema della comunità religiosa, al punto da arrivare ad assumere un carattere rituale: le proteste in Iran infatti avvenivano ogni quaranta giorni, per ricordare i caduti delle precedenti manifestazioni. Nonostante la violenta repressione che venne messa in atto per sedare le contestazioni, il popolo riuscì a resistere strenuamente, rivestendo i tumulti di una sacralità tale, da portare lo stesso esercito iraniano a rifiutarsi di sparare sulla folla di civili disarmati.
Con l’instaurazione della repubblica islamica, però, lo stato divenne confessionale e i precetti del Corano assunsero la forza della legge, provocando una soppressione ancora più accentuata delle libertà della popolazione.
Le possibili strade del dissenso
Allo stato attuale, le proteste in Iran, per quanto marcato e resistente il dissenso sia, non ha la robustezza adatta a sovvertire il regime islamico. Verte, invece, in una situazione di pericolo, non tanto per la repressione, ma per la possibilità che si insinuino organismi in grado di infondergli tale consistenza che momentaneamente manca: ad esempio altri stati che potrebbero indirizzare i venti delle proteste verso i loro interessi. In loro gli iraniani troverebbero sicuramente delle strutture articolate capaci di rovesciare il potere dei mullah, ma difficilmente riuscirebbero a far valere le proprie pretese.
Riprendendo gli insegnamenti della storia, quindi, per sovvertire la forma di governo attuale servirebbe dare un’intelaiatura al dissenso, proprio come avvenne con il crollo del regime di Reza Pahlavi; senza una simile ossatura, che potrebbe essere instillata sia da agenti esterni che interni, faticosamente le proteste si tramuteranno in una vera e propria rivoluzione, capace di dare vita ad un sistema nuovo in grado di soddisfare la fame di diritti e libertà che ha ormai invaso l’Iran.