Nelle tante discussioni che si sono susseguite nei giorni riguardo il tema delle proteste scatenatesi in America a seguito dell’uccisione di George Floyd, c’è un aspetto che è stato scarsamente commentato.
A scendere in piazza, nell’ultima settimana, sono stati cittadini americani appartenenti a tutte le etnie. Non sono state solo le voci degli afroamericani a gridare che “le vite dei neri contano”, i loro pugni non sono stati gli unici a levarsi al cielo. Ad inginocchiarsi, a sdraiarsi per le strade con il viso a terra e le mani dietro lo schiena, in ricordo del modo in cui Floyd è stato ucciso dagli agenti della polizia, a recitare come una preghiera le sue ultime parole, c’erano individui appartenenti a tutti i gruppi etnici e culturali che compongono la popolazione statunitense.
Questo segnale non deve essere trascurato perché potrebbe fare la differenza rispetto al passato.
I bianchi che sono scesi nelle strade a protestare non potranno mai comprendere l’esperienza di vita dei loro concittadini di colore perché non dovranno mai provare sulla propria pelle le discriminazioni e le ingiustizie cui gli afroamericani vengono giornalmente sottoposti.
L’importanza del gesto di affiancarsi alla richiesta di giustizia dei cittadini di colore sta nel fatto che esso assume il significato di un atto di riconoscimento. Non di legittimazione. Le pretese di riconoscimento dei propri diritti e della propria dignità da parte di quella determinata parte del popolo americano sono sempre state legittime, anche quando gli unici ad avanzarle erano i diretti interessati.
Oggi, però, quella che ci viene restituita è l’immagine di un popolo unito, un popolo composto da individui e comunità che si riconoscono, che affermano reciprocamente il proprio valore, una collettività che chiede alle istituzioni di correggere le iniquità della società cui tutti prendono parte.
Questa, soprattutto se si pensa alle origini del movimento per i diritti degli afroamericani, non è una novità trascurabile.
Si è arrivati, forse, ad un punto in cui ci si rende conto che le ingiustizie che investono le minoranze della società sono dannose per tutti i suoi componenti, per il fatto che quelle iniquità sono generate da meccanismi di misconoscimento che non possono esistere in uno Stato che voglia dirsi sano.
I concetti di riconoscimento e misconoscimento sono legati, nel dibattito filosofico, all’idea di fondazione dello Stato fin da quando essa ha avuto origine.
Ancora oggi pensatori di rilievo, come Habermas ed Honneth, sottolineano lo stretto nesso che intercorre tra riconoscimento intersoggettivo e legame sociale, rinnovando e attualizzando un dibattito iniziato con Hobbes e Rousseau e reso particolarmente determinante da Kant ed Hegel. È stato quest’ultimo filosofo ad affermare il concetto per cui l’uomo esiste solo come risultato dell’interazione sociale.
Pur con diverse sfumature i pensatori che riflettono sui concetti di riconoscimento e misconoscimento tendono ad affermare l’idea per cui la possibilità che gli uomini hanno di attribuire un valore positivo alla propria individualità, di concepirsi come esseri titolari di diritti, è vincolata al tipo di rapporto che intrattengono con coloro che sono loro prossimi.
Il fatto di prendere parte ad una precisa comunità sociale e politica, regolata da determinati meccanismi di riconoscimento e misconoscimento, cioè, non è affatto secondario nella definizione della qualità di vita dei cittadini.
Per questo motivo si può dire che il funzionamento degli Stati, in particolare di quelli caratterizzati da una composizione plurale come gli Stati Uniti, sia legato alla capacità dei loro componenti di riconoscersi reciprocamente degni di valutare le norme condivise, di esserne i coautori. In questo senso il riconoscimento è uno dei presupposti necessari affinché si possano considerare presenti le condizioni della vita associata.
Riconoscimento e misconoscimento non sono concetti astratti. I rapporti di parità o disparità che si instaurano tra i componenti di uno Stato hanno importanti ripercussioni sulle condizioni di vita anche materiali dei suoi cittadini. Quelle relazioni, infatti, si riflettono a livello istituzionale e generano meccanismi di segregazione e di disuguaglianza nei trattamenti.
Questo meccanismo non potrebbe essere più evidente nel caso degli Stati Uniti in cui la qualità di vita dei cittadini appartenenti alle minoranze etniche è significativamente minore rispetto a quella dei cittadini bianchi.
Ecco perché la partecipazione significativa dei diversi gruppi sociali alle proteste dell’ultima settimana in America è così importante, perché infonde la speranza che la mentalità della popolazione stia mutando.
Ciò che rimane guardando le testimonianze provenienti dagli Stati Uniti è l‘immagine di un corpo sociale formato da individualità diverse consapevoli di essere eguali nella dignità e che non tollerano, perché non possono farlo, che quella qualità inalienabile continui ad essere sistematicamente violata.
Ad agitare le proteste in America sono soprattutto individui che non si girano dall’altra parte, che notano l’iniquità presente nella propria società e decidono di agire a fianco di chi ne è colpito. Costruire muri come quello che Trump ha fatto erigere intorno alla Casa Bianca non servirà a niente, presto o tardi le istituzioni dovranno accogliere le richieste della comunità unita.
Silvia Andreozzi