Continuano le proteste ad Hong Kong, diventando sempre più irruente e violente. Gli studenti, trincerati nel PolyU, sono stati attaccati da una carica della polizia.
Ancora caos, centinaia di studenti attaccati ed un ferito tra le forze dell’ordine. La situazione diventa sempre più precipitosa per via delle proteste a Hong Kong, dove durante la notte la polizia cinese ha assediato il Politecnico portando a decine di arresti. Gli studenti però non demordono: trincerati nell’edificio accademico, hanno trasformato l’istituto in una fortezza armati di molotov, sassi, archi e frecce. Dall’altro lato la polizia è ancora armata con cannoni ad acqua, lacrimogeni, pallottole di gomma (sebbene alcune cariche funzionarie della Cina Continentale consigliano pallottole vere).
In più gli studenti hanno bruciato un ponte pedonale collegato al Campus per impedire ogni accesso, ma la situazione sta diventando sempre più accesa. Durante la notte, all’angolo di Chatham Road South, davanti al Museo storico, ci sono poliziotti assediati che sparano lacrimogeni non appena vedono movimento. Gli agenti, inoltre, si tengono pronti per la lotta corpo a corpo: elmetto con visiera, manganello, fucile, volto coperto e fucile con la scritta “less lethal”, arma munita di pallottole di caucciù.
Introdotti nel Campus: la polizia carica
La polizia è riuscita ad introdursi nell’ingresso del campus, dove si sono viste vampate di fuoco, che hanno allontanato studenti. I protestanti, allora, si sono introdotti ancora più all’interno della struttura. Dopo tre colpi di candelotti lacrimogeni, la carica degli agenti. Dopo la ritirata, vengono arrestati quattro ragazzi, ma sono almeno un migliaio i giovani in protesta, divisi in nuclei. Assistenza improvvisata attorno al luogo della rivolta: ci sono infermerie nella chiesa luterana e squadre di ragazzine che recuperano tutto quello che può essere recuperato per la protesta.
Nel frattempo gli studenti attorno alle strade del Poli, costruiscono lunghe canne di bambù legate insieme a scacchiera, per ostacolare l’avanzata dei poliziotti. Oltre ai mattoni strappati ai marciapiedi e disseminati sulla carreggiata, mentre su Jordan Road grande puzza di benzina: coperti da ombrelli, ci sono ragazzi che preparano molotov. Nell’ultima svolta minacciosa il movimento ha promesso di fare del caos permanente la «nuova normalità» di Hong Kong.
I principi della protesta
Preoccupanti ed oltre tutto sempre più pericolose, tali proteste sono iniziate il 15 marzo 2019 con un semplice sit in. In queste occasione non si nascondevano prese di posizioni molto definite contro il disegno di legge dell’estradizione dei detenuti verso paesi dove non vi sono accordi di estradizione, sebbene al momento sia stata ritirata. Le proteste sono sorte per timore che tale legislazione avrebbe violato la linea di demarcazione tra i sistemi legali/giuridici, con proteste che hanno visto marce pacifiche per le strade, limitati dalla polizia, poi movimenti più violenti e irruente attorno agli inizi di giugno. Una partecipazione totalitaria che ha visto il moto anche da associazioni a favore dei diritti umani: la protesta in realtà è vista come un’ingerenza cinese nel sistema giuridico della metropoli.
Come una lama a doppio taglio che avrebbe consentito alla Cina di usarlo contro i suoi oppositori. Poiché nulla avrebbe impedito al regime di inventare accuse allo scopo di estradare qualcuno. In totale i sette cortei nella città di Hong Kong, hanno riportato tristissime statistiche. Sono state arrestate 420 persone, 3000 feriti, e 44 accuse di crimini per 10 anni di carcere. Ad oggi la Cina sta cominciando a mostrare il suo dissenso attraverso giornali governativi. L’editoriale “Xinhua“, l’agenzia di stato, condanna le proteste. In più sostiene che «il governo centrale non resterà con le mani in mano e non permetterà a questa situazione di continuare». Nel frattempo, gli osservatori internazionali hanno cominciato a domandarsi a riguardo della reazione dello Stato. Finora ha utilizzato censure e minacce, ma avrebbe la possibilità legale e concreta di usare la forza all’interno del territorio autonomo.
Anna Porcari