Nel pomeriggio di mercoledì 29 maggio, nel carcere minorile Beccaria di Milano, si è verificata una protesta con alcuni detenuti che si sono rifiutati di tornare in cella. In molti hanno parlato di rivolta ma subito dopo i fatti è intervenuto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, per sottolineare l’importanza della distinzione tra rivolta e protesta e per riportare l’attenzione sull’importanza di capire che cosa stia succedendo all’interno di un istituto in cui un mese fa sono stati arrestati 13 agenti per violenze e maltrattamenti perpetuati su alcuni detenuti minorenni.
Diventa necessario porsi una serie di interrogativi soprattutto nel momento in cui il governo sembrerebbe deciso ad approvare il nuovo ddl sicurezza, da molte associazioni come Antigone e Asgi giudicato disumano.
Il carcere minorile Beccaria e le proteste di mercoledì
Nel pomeriggio di mercoledì, circa una cinquantina di detenuti del carcere minorile Cesare Beccaria si sarebbero rifiutati di rientrare in cella, apparentemente in seguito a un controllo antidroga. L’allarme, scattato intorno alle 15.30, ha portato all’intervento della Questura di Milano con agenti in tenuta antisommossa. Quella che è stata definita una “rivolta” è rientrata nel giro di poco tempo senza danni né a persone, né a oggetti o strutture.
Il carcere minorile Cesare Beccaria è stato più volte al centro dell’attenzione negli ultimi mesi. Il fatto più grave è stato la scoperta di violenza e torture perpetuate nei confronti di almeno 12 detenuti ad opera di 13 agenti lo scorso mese. In molti hanno criticato le tensioni costanti all’interno del carcere ma, come sottolineato dal presidente di Antigone Patrizio Gonnella, è fondamentale indagare il motivo del costante malessere dei detenuti e interrogarsi sullo stato degli istituti penitenziari italiani. Anche una precisione terminologica diventa necessaria, perché in caso contrario non si fa che perpetuare lo stigma esistente su questi luoghi e su chi si trova al loro interno. Proprio Patrizio Gonnella sui fatti di mercoledì ha infatti dichiarato:
«Si è parlato di rivolta, come troppo spesso si fa in casi analoghi, e crediamo che innanzitutto vada ripristinato il corretto uso dei termini, riconoscendo la differenza tra rivolte e proteste. Quella del Beccaria di ieri rientra perfettamente in quest’ultima fattispecie e bisogna cercare di capire cosa sta accadendo in quell’istituto dove, un mese fa, la metà degli agenti in servizio sono stati indagati per torture e altri reati connessi ai casi di torture.
Il quadro che esce fuori dalle carte della Procura parla di un clima di violenze e sopraffazione generalizzato. […] Il problema del Beccaria, oggi, è un problema – aggiunge – di comprensibile mancanza di fiducia verso l’istituzione. Le proteste, quella di ieri non è il primo episodio critico avvenuto nell’ultimo mese, vanno dunque affrontate con il dialogo, lavorando per ripristinare proprio quella fiducia, fondamentale tra custodi e custoditi».
I timori per il ddl sicurezza
Dopo mesi di stasi alla Camera, sembra che la maggioranza voglia ridurre i tempi per l’approvazione del nuovo decreto sicurezza. Il nuovo disegno di legge, come sottolineato da un documento firmato congiuntamente da Antigone e Asgi, si porrebbe in «evidente contrasto con una serie di principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento giuridico». Tra le varie norme contestate, vi è proprio quella che rischia di equiparare le proteste violente a quelle non violente nelle carceri. Chi si opporrà anche in maniera pacifica a ordini impartiti in carcere, potrà rischiare fino ad 8 anni di reclusione.
Questo sarebbe stato quindi il destino dei detenuti del Beccaria in seguito alla protesta non violenta di mercoledì se il ddl fosse già stato in atto. Alla base di questa norma vi è una logica esclusivamente repressiva, senza più una differenza tra violenze e lotte sociali che servono a portare alla luce ingiustizie all’interno del sistema e a dare voce a chi non ha particolare diritto di parola. Sempre nel documento di Antigone e Asgi si legge infatti «Se questo provvedimento diverrà legge segnerà una deriva del sistema democratico verso un modello autoritario e repressivo nelle nostre comunità colpendo anche con intenti discriminatori, diverse situazioni di marginalità sociale».
La nascita del GIO, reparto anti rivolte in carcere
Sul modello dell’Eris francese, il sottosegretario di Stato al Ministero della giustizia del governo Meloni Andrea Delmastro delle Vedove ha presentato il Gruppo di Intervento Operativo, un gruppo di 200 agenti operativi entro la fine dell’anno. I 200 agenti, che saranno selezionati entro luglio, saranno ben equipaggiati, altamente specializzati e assicureranno l’intervento entro un’ora dalla richiesta dei direttivi delle carceri per sedare ogni tipo di rivolta (e protesta), come anche quella di mercoledì scorso al minorile Beccaria.
Ciò che viene sottolineato costantemente da numerosi esponenti del governo o del Ministero della giustizia è la necessità di incrementare la sicurezza all’interno delle carceri. Ciò che in tutte le dichiarazioni è ancora assente, è proprio la ricostruzione di quel rapporto di fiducia di cui hanno parlato gli esponenti dell’Associazione Antigone in seguito alle proteste al Beccaria di Milano.
Pensare esclusivamente a un costante rafforzamento delle squadre di intervento e dei corpi di polizia all’interno degli istituti penitenziari non risolve un problema endemico di questi luoghi, spesso basati su un modello autoritario, su una mancata fiducia e un mancato dialogo tra le parti che portano inevitabilmente a un malessere costante dei detenuti e a un conseguente aumento della tensione all’interno di istituti che dovrebbero essere in primo luogo rieducativi.
“Ragazzi dentro”: il rapporto di Antigone sulle carceri minorili
È recentemente stato pubblicato “Ragazzi dentro”, il VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minorenni. Secondo il rapporto i detenuti degli istituti penali per minorenni sono ad oggi circa cinquecento, il numero più alto degli ultimi dieci anni. Negli istituti per minori vi è a possibilità di rimanere fino a 25 anni se si studia o si partecipa a progetti di reinserimento e, se fino a due anni fa il 60% erano detenuti al di sopra dei 18 anni, dall’ultimo rapporto emerge che la tendenza si è invertita, con la maggioranza dei detenuti al di sotto dei 18 anni.
Cresce quindi il numero di detenuti giovanissimi, senza però un incremento del numero dei reati, rimasto invariato dal 2015, conseguenza diretta del decreto Caivano approvato nel 2023 dal governo Meloni. Se prima si tentava di evitare la detenzione in carcere per i giovanissimi in favore di altre pene rieducative, ad oggi il carcere diventa l’immediata opzione, anche per i detenuti in misura cautelare, ovvero con i processi ancora in corso.
Questo alimenta uno dei problemi principali delle carceri italiane, il sovraffollamento, questione presente anche negli istituti penali per minorenni. Ad oggi, 7 istituti su 17 vedono un numero di presenze maggiori rispetto ai posti effettivamente disponibili, tra cui il Beccaria di Milano e gli istituti di Bologna, Firenze, Potenza, Pontremoli, Torino e Treviso.
Il sistema penitenziario italiano non si limita alla punizione dei reati, ma dovrebbe avere come obiettivo primario la rieducazione e il reinserimento nella società dei detenuti. Questo obiettivo diventa ancora di più una necessità quando i detenuti sono ragazzi giovanissimi. Pensare di risolvere le problematiche all’interno delle carceri e degli istituti minorili con la forza è un approccio fallimentare, basato sulla repressione e la disumanizzazione dei detenuti. Il sistema rieducativo deve rimanere un diritto inviolabile, l’obiettivo ultimo di questi luoghi di detenzione, soprattutto quando in gioco ci sono i destini dei detenuti più giovani.