Se c’è una condizione che accomuna tutte le giornaliste del mondo oggi, questa è essere vittima di molestia. Sia online che offline le professioniste dell’informazione sono costantemente oggetto di insulti, minacce e censura. Il dato è emerso chiaramente in tutti gli incontri sulla violenza di genere tenutisi in Uruguay all’annuale conferenza UNESCO per celebrare la giornata internazionale per la libertà di stampa.
“Tutte le donne conoscono le molestie, tutte noi sappiamo dei rischi associati alla professione. Eppure, dobbiamo costantemente dimostrare di poter controllare le nostre emozioni, di essere forti come gli uomini. Quindi, se tutte le donne conoscono queste situazioni, sarebbe bello avere più uomini in questa stanza oggi“, ha detto Julissa Mantilla Falcon, presidentessa della Commissione interamericana per i diritti umani.
Secondo il report pubblicato dall’UNESCO in collaborazione con l’International Center for Journalists (ICFJ) A Global Study of Online Violence Against Women Journalists, negli ultimi due anni per via dell’insicurezza economica acuita dalla pandemia e della mancata regolamentazione dell’hate speech online il 20% delle giornaliste ha abbandonato i social media, mentre l’11% ha cambiato professione. Lo studio, focalizzato sulle strategie adottate dai media digitali per prevenire e rispondere alla violenza di genere, ha mostrato chiaramente la necessità di spostare l’onere della risposta dalle singole professioniste alle organizzazioni giornalistiche, le quali troppo spesso non adempiono ai loro obblighi professionali: delle mille giornaliste intervistate infatti, assai poche hanno dichiarato di aver ottenuto supporto nel mondo del lavoro.
“Le giornaliste stanno combattendo e hanno bisogno di pieno sostegno“, ha detto Tawfik Jelassi, vicedirettore generale UNESCO per la comunicazione e l’informazione. “Diversi attori devono combattere negli ambienti in cui questa violenza viene applicata. Questo vale non solo per gli utenti, ma anche per i legislatori, le comunità online, i governi, le organizzazioni intergovernative e, naturalmente, anche per la società civile“.
Come emerge dal documento presentato, tre intervistate su quattro hanno dichiarato di aver subito violenza online, ma solo una su quattro lo ha segnalato ai propri datori di lavoro. Se da una parte questa attitudine riflette una spirale di silenzio che accomuna tutti i giornalisti vittime di violenze, lo studio spiega anche che ciò può riflettere una cultura misogina all’interno delle redazioni: il 9% delle donne ha riferito di essersi sentito domandare che cosa abbiano fatto per provocare gli attacchi dai loro editori, gli stessi che hanno poi loro consigliato di “farsi crescere le ossa” o di “farci l’abitudine”. Un atteggiamento che incoraggia l’autocensura, con gravi danni per la qualità dell’informazione.
Dall’altra parte, solo il 20% delle giornaliste ha ottenuto strumenti di supporto per la propria sicurezza digitale quando a fronte di un 26% di giornaliste riscontranti ricadute sulla loro salute mentale, solamente il 12% ha ottenuto assistenza adeguata.
Le evidenti mancanze riscontrate, non possono però avere tutte una risposta univoca. L’UNESCO ha infatti sottolineato l’importanza di risposte basate su una piena comprensione del contesto socioculturale in cui il singolo attacco ha luogo: “abbiamo bisogno di politiche redazionali sui social media che non richiedano solo una condotta responsabile dei dipendenti, ma che promettano di sostenere le singole giornaliste“, ha detto Julie Posetti, vicepresidente dell’ICFJ. Tanto più che un’intervistata su cinque ha dichiarato che le minacce online hanno preso corpo nella vita reale.
Oggigiorno, le donne operanti nel mondo dell’informazione rappresentano l’80% dei professionisti: silenziare tali voci critiche, com’è accaduto a Daphne Anne Caruana Galizia, giornalista maltese uccisa a causa delle sue inchieste sulla politica nel suo paese nel 2016, non può che aumentare la percezione di democrazia imperfetta che tanti cittadini oggi riscontrano quando si approcciano alle istituzioni e a chi le racconta.
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Per contribuire ad affrontare questo problema, l’UNESCO ha lanciato il 3 maggio, data che celebra la firma della dichiarazione di Windhoek, la Dichiarazione congiunta sulla libertà di espressione e la giustizia di genere. Il documento evidenzia le disuguaglianze sistemiche di genere e fornisce raccomandazioni agli Stati membri, alle aziende private, ai media e al pubblico in generale per promuovono un’adeguata giustizia di genere.
“In questo mondo essere offline vuol dire essere messo a tacere“, ha ricordato Posetti, “Abbiamo anche bisogno di difesa pubblica, abbiamo bisogno di vedere dichiarazioni pubbliche di sostegno che resistano agli aggressori e rafforzino la fiducia nel giornalismo”. La disinformazione, che rappresenta la fonte del 41% degli attacchi online, è un problema che riguarda tutta la società civile, senza distinzione di genere o identità. È dunque necessario fornire risposte concrete per poter proteggere una categoria che a tutti gli effetti non rappresenta una minoranza, quanto lo specchio dei valori in cui tutti noi ci riconosciamo.