Profilazione razziale: l’ipocrisia sventola bandiera italiana

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di Giulio Cavalli


La morte di George Floyd negli USA e le successive manifestazioni in tutto il Paese corrono lo stesso rischio di tutte le notizie che arrivano da oltre oceano: o si rimane basiti, addolorati ma fondamentalmente assolti da una distanza che viene percepita anche come lontananza dal problema, oppure ci si sforza con tutte le migliori intelligenze a riportare quel fatto qui da noi, a vederne i contorni che quello stesso fenomeno assume in Italia e si riesce quindi a empatizzare con il dolore, ma soprattutto a sentirsi parte attiva della soluzione del problema.

La prima ipotesi (il piangi e assolviti) è quella più in voga e che giornalisticamente funziona: la violenza dei poliziotti o  dei manifestanti è roba golosa per chi cerca click, like e lettori, non comporta fastidiosi obblighi di empatia e rimane un safari nei problemi degli altri. La seconda ipotesi, invece, ha meno goloso coinvolgimento visivo e parte dai numeri per finire alla domanda che conta: “e da noi?”.

I numeri, intanto: secondo uno studio della National Academy of Sciences in Nord America la sesta causa di morte tra gli uomini di età tra i 25 e i 29 anni è un arresto di polizia per gli appartenenti a uno stesso nucleo etnico: rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio, le donne 1,4 volte. Per i nativi uomini, il rischio è di 1,2-1,7 volte maggiore, mentre per le donne tale fattore è compreso tra 1,1 e 2,1. Per gli uomini latini, infine, la probabilità cresce di 1,3-1,4 volte rispetto ai bianchi.

Negli USA si discute da anni di quella che viene definita profilazione razziale ovvero la predisposizione da parte delle forze di polizia di agire in base all’etnia o all’origine nazionale di un individuo piuttosto che sul suo comportamento oppure sulle informazioni che portino identificarlo. Detta semplice semplice: se un uomo bianco sta correndo da qualche parte su un marciapiede qualsiasi di una città qualsiasi si dà per scontato che sia in ritardo per qualche importante appuntamento di lavoro, mentre se un nero corre nei pressi di un marciapiede viene naturale immaginare che sia appena uscito da una rapina o che abbia derubato qualcuno. Il colore della tua pelle diventa un primo istantaneo elemento di sospetto.

Incredibile, eh? Che mostri questi americani. Del resto scommetto che a voi non sia mai capitato di assistere alla scena, ipotizziamo sulle banchine dei binari in una stazione qualsiasi, di assistere ai controlli di forze dell’ordine mirati su colori della pelle e abbigliamento. Vero?
Ci mancano gli occhi per guardare. Vediamo moltissimo ma guardiamo quasi niente. Qualche giorno fa le aziende subappaltatrici dei riders di Uber Eats (Livotti srl e Flashroad srl) in un’intervista a Business Insider Italia ci hanno spiegato che il 60% dei loro fattorini sono “africani perché gli italiani vogliono 2mila euro al mese” e ci hanno invitato a smetterla con la “retorica dei poverini”. La “retorica dei poverini” sarebbe semplicemente l’osservazione di un bisogno di alcuni lavoratori (che hanno come obbiettivo quello di poter rimanere in Europa dopo avere attraversato il Mediterraneo) che gioca a favore dello sfruttamento di alcune aziende.

Dentro quella “retorica dei poverini” c’è la profilazione razziale “morbida” tutta italiana che ci consente di vedere (senza guardare) un colore della pelle come appartenenza a una classe sociale senza il diritto di lamentela. Non è anche questo un ginocchio sulla gola? Allarghiamo il discorso: quante persone conoscete, dalla pelle più scura della vostra, che lavora nei vostri ambienti professionali? Quanti dipendenti pubblici avete mai osservato? Non sono infinitamente meno rispetto alle statistiche di cittadini italiani? Quanti tassisti vi è capitato di incrociare qui in Italia che siano neri? Pochi, quasi niente. Quanti lavorano nel mondo editoriale, quanti lavorano nel mondo bancario e finanziario, quanti lavorano nel mondo dei professionisti?

Forse quegli occhi che vedono sospetti ovunque nelle strade americane sono gli stessi occhi che con un razzismo “dolce” (non consapevole, non scelto ma comunque stabilmente insediato nella nostra forma mentis) ci spingono a considerare una persona a prima vista come appartenente a una categoria umana semplicemente per la sua provenienza. E, badate bene, non parliamo della xenofobia che alimenta certa mala politica per stuzzicare la voglia di sicurezza, ma di una prima impressione vincolata: vi è mai capitato di avere la sensazione di essere giudicati per tutta la vita dal colore dei vostri capelli, avete mai avuto la sensazione di essere visti in prima battuta per il taglio dei vostri occhi? No, sicuro. Eppure è quella la barriera.

E quindi? Quindi per partecipare al movimento americano c’è un imperativo categorico che bisognerebbe cominciare a rispettare: guardare al nostro razzismo, rendere materia di studio il colonialismo italiano e imparare una volta per tutte che la moderna segregazione è figlia di una storia che ha sempre manipolato le differenze a vantaggio di pochi. Per partecipare al movimento americano, oltre che condividere qualche slogan, sarebbe il caso di cominciare a interrogarsi sul privilegio di essere bianco in un Paese in cui il bassissimo dibattito politico ha trasformato l’antirazzismo in una posa, in un tic.

E forse sarebbe anche il caso di vedere le nostre ginocchia sulle gole degli altri: nel Mediterraneo, ad esempio, il ginocchio non compare in nessun video e non rientra in nessun hashtag eppure continua a mietere vittime: soffocano per indifferenza e solo dopo gli si riempiono i polmoni. Non è qualcosa per cui alzare la voce?
C’è infine il problema atavico italiano: provare empatia per qualcuno lontano, sia anche dall’altra parte del mondo, è terribilmente più facile che empatizzare con il nostro vicino di casa. Di questo, ad esempio, ne vogliamo parlare?

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