Come si intrecciano clima e produzione alimentare, cambiamenti climatici e i diritti al cibo? CILD (Coalizione Italiana Diritti Civili) e Centro Internazionale Crocevia si interrogano a riguardo e fanno il punto della situazione.
CILD e Crocevia
CILD
è una rete di organizzazioni che tutela e promuove le libertà civili garantite dalla Costituzione italiana e dal diritto internazionale, lottando contro abusi e violazioni attraverso campagne di comunicazione, pressione sulle istituzioni e azioni legali.
Crocevia, invece,
è un’Organizzazione Non Governativa di Cooperazione Internazionale che lavora, insieme alle comunità locali nei settori dell’educazione, della comunicazione e dell’agricoltura, promuovendo e realizzando progetti di cooperazione internazionale in Medio Oriente, Asia, Africa e America Latina e campagne di sensibilizzazione in Italia e all’estero sui temi dell’ambiente, biodiversità, biotecnologie, sovranità alimentare e diritto allo sviluppo equo e sostenibile.
La situazione nel mondo
Secondo l’ultimo IPCC, pubblicato lo scorso mese, circa 3 miliardi di persone vivono in zone altamente sensibili dal punto di vista climatico e più del 50% della popolazione mondiale vive in zone che si trovano in situazioni di carenza idrica per periodi più o meno lunghi. Ciò ha inevitabilmente un impatto sulla produzione alimentare e, dunque, sui diritti all’accesso al cibo.
Il rapporto denuncia una situazione critica e lancia un allarme sui rischi che corriamo se non invertiamo rapidamente la rotta. Eppure, sempre l’IPCC, lascia trapelare sconforto riguardo alla politica. Le amministrazioni (da quelle locali a quelle sovranazionali) non stanno facendo abbastanza per cercare di limitare i danni.
Produzione alimentare e sostenibilità
Anche la produzione alimentare ha un impatto. E non è un impatto irrilevante. Soprattutto per ciò che riguarda la produzione su larga scala. Ormai siamo tutti consapevoli, ad esempio, che l’allevamento intensivo non è minimamente sostenibile. Né da un punto di vista etico (gli animali allevati in quel modo subiscono ogni qualsivoglia tipo di maltrattamento), né da un punto di vista ambientale. Solo in Italia gli allevamenti sono responsabili del 50% dell’emissione totale di metano del Paese e, come è noto, il metano è un gas climalterante ben peggiore della CO2.
Lo stesso si può dire per le monocolture estensive che causano una diminuzione della biodiversità e che sono molto più fragili rispetto alle colture differenziate, soprattutto in tempi di cambiamenti climatici. Il motivo è abbastanza intuibile: un determinato evento climatico non colpisce allo stesso modo tutte le colture. Ad esempio: a fronte di una situazione di prolungata siccità, un’azienda che coltiva solo riso è destinata a soccombere mentre un’azienda che coltiva riso e sorgo perderà la parte di produzione di riso ma potrà comunque contare sul sorgo. Semplice, no?
Eppure le produzioni alimentari su larga scala, che sono più fragili e hanno un alto impatto per l’ambiente e la biodiversità, sono le più sussidiate: ottengono più fondi in virtù del fatto che possiedono più terre.
Le politiche internazionali in fatto di produzione alimentare
La PAC (Politica Agricola Comune), è un’organizzazione europea che è nata con l’obiettivo di sostenere la produzione agricola europea per rendere il Vecchio Continente un luogo sicuro in fatto di accesso al cibo. Oggi, però, è un “sussidificio per grandi agricoltori”, denuncia Crocevia. La politica di distribuzione dei fondi non è equa. Le aziende che possiedono più terra ottengono sussidi molto maggiori rispetto alle aziende medio piccole e questo non fa altro che alimentare un sistema produttivo insostenibile nel quale:
- Le aziende medio piccole sono spesso costrette a chiudere o ad essere assorbite da aziende più grandi.
- Le aziende più grandi, invece, ottengono fondi senza alcun vincolo che le obblighi a una produzione meno impattante, più biodiversa e, quindi, più sostenibile.
L’Italia e la sovranità alimentare
Con il governo Meloni nasce il Ministero per l’agricoltura e la sovranità alimentare. Ma che cosa si intende per sovranità alimentare?
Ufficialmente il termine è nato nel 1996 da un’organizzazione internazionale di agricoltori con l’obiettivo di tutelare una produzione equa, giusta e sostenibile in tutto il mondo. Oggi però, denuncia Crocevia, questa locuzione, nata con l’idea di congiungere contemporaneamente istanze internazionali e locali, è stata rivestita di una patina sovranista e nazionalista che non sta a guardare il metodo di produzione alimentare, bensì, più semplicemente, il luogo di produzione.
Così, ancora una volta, le produzioni su larga e larghissima scala ottengono sussidi per difendersi dalla concorrenza delle aziende estere ma non hanno alcun obbligo a spendere quei fondi in produzioni più sostenibili. L’unico obiettivo di questa politica, quindi, è difendere la produzione italiana in quanto economicamente conveniente, senza però rendersi conto che difenderla davvero significherebbe sostenere le aziende medio piccole (peraltro la maggior parte in Italia) che operano su scala locale e sostenibile e che onorano realmente la tanto invocata qualità del Made in Italy.
La sovranità alimentare così intesa non è minimamente vicina alle pratiche di sostenibilità su cui è stata fondata nel 1996. E, forse, il Ministero dovrebbe avvedersene perché ha storpiato completamente la natura di un’idea piegandola al proprio ideale.
Semplicemente, in nome di un nazionalismo di facciata, il governo ha deciso di sostenere un tipo di produzione alimentare che si limita a spostare i meccanismi di produzione delle multinazionali su suolo italiano. È davvero sovranità alimentare questa?
Le buone pratiche
Per poter rendere la produzione alimentare davvero sostenibile è necessaria una riconversione dell’intero sistema produttivo e di consumo.
- Le aziende dovrebbero dedicarsi a differenziare le proprie colture, magari privilegiando prodotti più resistenti che richiedono meno acqua, meno fertilizzanti chimici, meno suolo. Così facendo diventerebbero loro stesse più resistenti ai cambiamenti climatici e diventerebbero più sostenibili, meno impattanti preservando ambiente e biodiversità.
- Le amministrazioni dovrebbero iniziare a spingere verso questa riconversione. Sostenere le produzioni agricole già esistenti indirizzandole verso produzioni più sostenibili, se non per vocazione almeno per convenienza.
- I consumatori, in ultimo, giocano un ruolo cruciale. Consumando zucchine a gennaio e fragole ad agosto incentiviamo un sistema di produzione alimentare altamente impattante. Fare arrivare i limoni dal Sudafrica e le pere dal Cile ha un impatto molto maggiore che non consumare frutta e verdura di stagione e coltivata nelle nostre vicinanze. Non è una questione di nazionalismo, è una questione di sostenibilità ambientale. Ovvio, non tutti abbiamo la fortuna di vivere in aperta campagna, ma tutti abbiamo la possibilità di scegliere zucche in inverno e zucchine in estate. Forse non è sufficiente per cambiare il mondo, ma è già qualcosa.
Un breve appunto: gli accordi internazionali
Lo scorso novembre le Nazioni Unite hanno raggiunto finalmente un accordo sulla tutela della biodiversità. Il famoso 30×30, cioè l’obiettivo di rendere area protetta il 30% della superficie globale entro il 2030.
Obiettivo nobile, certo, ma il restante 70%? Crocevia denuncia una visione troppo schematica del problema. Mettiamo un recinto attorno al 30% del globo e così garantiamo un cuscinetto di biodiversità a salvaguardia dell’intero pianeta. È una visione troppo semplicistica. Gli ecosistemi sono connessi, ciò che accade in un punto del mondo ha delle ripercussioni anche in aree molto lontane
Un esempio per tutti: si può decidere a tavolino che i paradisiaci atolli del Pacifico siano area protetta ma se non facciamo nulla per limitare la fusione dei ghiacci quegli stessi atolli sono comunque destinati ad essere sommersi.
Per cui la richiesta di Crocevia è di considerare il problema nella sua complessità per creare delle leggi che vadano davvero nella direzione giusta. Mentre, a suo avviso, al momento creiamo leggi per interesse economico-politico e, visto che va di moda, ci mettiamo dentro anche un po’ di questioni climatiche.