Dal confronto di più studi è emerso che, sul mercato globale, il 36% dei prodotti ittici non corrisponde a quanto riportato sull’etichetta. A svelare la frode alimentare è il The Guardian, che ci informa anche su come comportarsi.
Cosa ci stiamo mangiando veramente?
Il quotidiano britannico The Guardian” ha controllato i risultati di 44 studi recenti per un totale di 9.000 campioni di prodotti ittici provenienti da più di 30 paesi nel mondo. Purtroppo, quanto emerso non è un quadro rassicurante: il 36% della merce è etichettato male. Tra gli stati coinvolti nella maxi frode alimentare rientra anche l’Italia, sebbene i tassi più alti si registrino nel Regno Unito e in Canada (55%), seguiti poi dagli Stati Uniti (38%).
Germania, le capesante
Appartenenti alla famiglia dei Pectinidae, che comprende oltre 250 specie, le capesante sono tra i primi quindici prodotti ittici più consumati in Europa. In particolare, sul mercato tedesco sono di grande interesse commerciale tre specie: la capasanta atlantica (Pecten maximus), oceanica (Placopecten magellanicus) e quella giapponese (Mizuhopecten yessoensis). Tuttavia, poiché spesso vendute senza guscio, il potenziale di etichettatura errata è molto elevato, soprattutto se non si ricorre a metodi di analisi molecolari (es. RT-PCR). Difatti, uno studio riporta che il 48% dei campioni testati presenta un’etichetta mendace. Nello specifico, le capesante giapponesi, meno ambite, riportano spesso la dicitura “atlantiche”, una specie invece molto più pregiata.
Regno Unito, i dentici
Uno studio del 2018, effettuato su campioni provenienti da regioni diverse dell’Inghilterra, ha rivelato che il 70% dei prodotti ittici con la denominazione “dentice” (Lutjanidae) appartiene in realtà a specie diverse, quali orata (Sparus aurata), scorfano (Scorpaena scrofa) e breme (Abramis brama). Inoltre, fatto ancor più grave, le analisi molecolari hanno rilevato la presenza sul mercato di molte specie protette. Alcune vivono sulle barriere coralline e sono già fortemente minacciate dalla distruzione degli habitat e dalla pesca eccessiva.
Singapore, “polpette di gamberi”
I Singaporiani ottengono circa il 30% delle proteine dai frutti di mare, un dato che non stupisce, considerando la stima del loro consumo medio pro capite di prodotti ittici, 21 kg, contro una media mondiale di 20,5 kg (FAO, 2018). Pertanto, visto l’alto consumo di pesce, sono state fatte diverse ricerche per controllare l’origine dei prodotti e quanto scoperto è molto preoccupante. In particolare, uno studio ha evidenziato che in molte pescherie la carne presente nelle polpette non è di gambero, ma di maiale. Questa problematica riguarda molti paesi del sud-est asiatico, ad esempio la Malesia, il Vietnam e le Filippine ma, purtroppo, è difficile avere un quadro generale completo. Infatti, spesso si impiegano tecniche diverse per le analisi e molte non sono confrontabili tra loro.
In Italia, la carne di squalo
Se il mercato di prodotti come le pinne, la cartilagine, il cuoio, l’olio di fegato e i denti è già molto affermato, quello della carne di squalo è destinato a crescere nei prossimi anni. Ad oggi, in questo settore l’etichettatura erronea non sempre è intenzionale, poiché spesso
il riconoscimento su base solo morfologica è difficile, quindi l’errore può essere effettivamente involontario. Purtroppo, questa grande confusione ha generato problemi di conservazione importanti, poiché alcune popolazioni di squali presenti nella Lista rossa si sono drasticamente ridotte, finendo nei mercati di tutto il mondo (es. lo squalo Mako mako kone). Uno studio italiano ha evidenziato un tasso di etichettatura erroneo per la carne di squalo pari al 45,4% del totale. Ad esempio, specie economiche, quali il gattuccio (Scyliorhinus canicula) e la verdesca (Prionace glauca), sono spesso vendute al posto del palombo (Mustelus mustelus, M. asterias e M. punctulatus), molto più apprezzato dagli Italiani.
La questione ristoranti
Il problema delle frodi sembra essere particolarmente diffuso nel mondo della ristorazione, come afferma una ricerca che ha interessato 180 ristoranti di 23 paesi europei. Un totale di 283 campioni di diversi prodotti ittici è stato inviato a un laboratorio per effettuare l’analisi del DNA. Dai risultati è emerso che un ristorante su tre non è conforme ai requisiti minimi di trasparenza, ovvero riporta etichette errate. I paesi più colpiti sono Spagna, Islanda, Finlandia e Germania (40-50%), mentre una percentuale più bassa interessa il Portogallo, Belgio, Norvegia, Francia, Romania, Italia e Paesi Bassi (25-33%). Valori ancora inferiori si registrano nel Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Grecia e Repubblica Ceca (13-18%). Invece, in Svezia, Svizzera e Slovenia non è stato rilevato alcun errore.
Per quanto concerne le singole specie, i pesci più colpiti dalla frode (80-100%) sono la cernia scura (Epinephelus caninus) e il pesce burro (Lepidocybium flavobrunneum). Tuttavia, ci sono stati diversi casi (43-67%) anche di sogliola (Solea solea), tonno rosso (Thunnus thynnus)e pinna gialla (Thunnus albacares) e, seppur in numero ridotto (14-33%), di nasello (Merluccius merluccius), merluzzo (Gadus morhua) e pesce spada (Xiphias gladius).
IUU, Illegal Unreported and Unregulated
Si traduce “Illegale, non dichiarata e non regolamentata” ed è quella forma di pesca che incide molto negativamente sulla biodiversità del mare. Infatti, da tempo ormai minaccia molte specie vulnerabili e ostacola i Paesi nel raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile promossi dalle Nazioni Unite. Comprende molteplici attività illegali, che causano anche rischi per la salute e la sicurezza e contemporaneamente intensificano un traffico di denaro tra gli 8,9 e i 17,2 miliardi di dollari all’anno. Secondo le stime, vengono commercializzati annualmente tra i 7,7 e i 14 milioni di tonnellate di prodotti ittici illegali in tutto il mondo. In genere, la pesca avviene a bordo di grandi navi di trasbordo a largo delle coste dell’Africa, dell’Asia e del Sud America. Sugli stessi natanti si effettuano i procedimenti di etichettatura, con basse probabilità di essere scoperti, poiché il monitoraggio della filiera ittica è purtroppo ancora debole.
Un “codice a barre” del DNA
Per contrastare le frodi sui prodotti ittici, l’Organic Ocean Seafood in collaborazione con l’università di Guelph (Ontario) ha progettato un programma di autenticazione per il pesce, utilizzando il principio del DNA barcoding. In pratica, per ogni specie è stato sequenziato e registrato in banca dati un segmento caratteristico (codice a barre) da confrontare con le analisi dei prodotti ittici destinati alla vendita. Ad oggi, questa strategia non si è ancora largamente diffusa, ma si spera di vedere presto un cambiamento radicale, che garantisca un commercio legale, controllato e tracciabile dalla barca al piatto.
Come informarsi fuori dal laboratorio
Dal momento che improvvisare al supermercato un test molecolare con PCR potrebbe risultare complicato, il consumatore medio incontra serie difficoltà. A maggior ragione se compra dei tranci di pesce, i quali, poiché privi di squame, pinne, testa e coda, sono ancora più difficili da riconoscere. Tuttavia, secondo Seth McCurry, responsabile del Marine Stewardship Council, la presenza delle etichette blu MSC (pesci in natura) e verde ASC (pesci di allevamento) è garanzia di autenticità. Ad esempio, MSC esegue sistematicamente i test del DNA sui suoi prodotti ittici, sicché il tasso di errore sulle etichette è <1%. In generale, è consigliato comunque acquistare pesce intero rispetto ai filetti e non fidarsi dei commercianti che non inseriscono il nome scientifico sull’etichetta. Infine, sarebbe opportuno controllare sempre i prezzi di ogni varietà e valutare l’acquisto con più attenzione, soprattutto se sono troppo “competitivi” rispetto alla media.
Il commerciante è responsabile della prima truffa, della seconda, tuttavia, lo è il cliente.
Sebbene la distrazione di un cliente non giustifichi certo la mancanza di trasparenza da parte di un commerciante, l’antico proverbio cinese ci invita alla cautela. Un monito, quest’ultimo, a cui noi Italiani abbiamo risposto con “Non è tutto oro quel che luccica”, un’affermazione comunemente attribuita a Shakespeare, ma in realtà ereditata da un manoscritto dell’antica Roma.
No, Shakespeare non ci ha imbrogliato, l’ha solo resa più famosa di quanto avrebbe probabilmente fatto una versione di latino.
Carolina Salomoni
Grazie per l’articolo. Confermo che non basta ‘affidarsi’ alla rete di distribuzione e vendita, è nostro dovere sfruttare i canali di comunicazione per trovare fonti attendibili per avere prodotti di qualità, che non incidano negativamente sull’ambiente e che rispettino le regole di sostenibilità. Si tratta di una abitudine, nulla di difficile o che richieda tempi lunghi.
Buon lavoro,
Andrea