Dell’anno zero, sculto a un triennio fa, abbiamo parlato e scritto fino al disgusto. Niente e nessuno sarà più quello di prima, in questo nuovo, distopico, universo dominato dallo stravolgimento delle abitudini. Si legge sempre più frequentemente di procrastinazione patologica, considerata una introspettiva risposta alla richiesta sociale di velocità. La “vita nova”, disarticolando i ritmi ordinari, ci ha lumeggiato sulle connotazioni proprie del metro utilizzato per misurare la successione di singoli istanti: il tempo. Corteggiato dai grandi filosofi, intrappolato in tabelle metriche dai matematici, teorizzato nella sua relatività in fisica e ghermito da condizioni atmosferiche per i meteorologi. E poi scatola di memorie da impugnare all’occorrenza per gli psicologi, simulacro di figure metaforiche per i poeti e incasellato su di una immaginifica linea cronologica dagli storici. Il tempo, alleato e tiranno, rapace e immobile, vagheggiato e sospirato, affidato alle bizze di Chronos in una tumultuosa agitazione di creazione e distruzione.
Inafferrabile, come tutte le intuizioni intangibili, esiste solo in rapporto alla sua percezione: così potrà sembrare eterna una battaglia o una notte insonne e tanto, troppo effimera una vita intera. Ma cosa accade quando il suo passo si distanzia inesorabilmente dal nostro? Quando il cono d’ombra comincia a ingigantirsi estromettendoci dalla caliginosa rifrazione? Rimandiamo, tergiversiamo, centelliniamo i giorni scambiandoli per istanti. E più il suo passo si fa svelto, più terreno perdiamo noi. Quando la procrastinazione diventa patologica, il tempo che pensavamo di saper governare, assume le redini del comando.
Procrastinazione patologica, contraccolpo della società capitalista
Già tra la fine del 800 e gli inizi del 900, il padre della sociologia, Émile Durkheim, teorizzava la presenza di norme sociali alle quale adattarsi. Disattendendole si corre il rischio di anomia, identificata dallo studioso francese come allontanamento dalla regolamentazione morale e sociale. Aspettative esacerbate nell’era della produzione in serie e dell’acquisizione di profitti, capisaldi del modello capitalista. In realtà così complesse come quella in cui siamo immersi, vengono sopraffatti dalle richieste di conformità pure le astrazioni ideali della bellezza, dell’amore, delle scelte personali, delle tappe della vita.
Così, il proclama postsessantottino del “Nasci, produci, consuma, crepa” – manifesto di insurrezione all’ordine stabilito dal neonato consumismo – va ad intersecarsi con le aspettative temporali di una società che dispone l’incasellarsi di ogni snodo personale in piccoli vani precostituiti. Lampante, a questo punto, l’aggancio al celeberrimo film-manifesto di una “generazione strappo”. Come dimenticare l’esergo della controversa pellicola di Danny Boyle, Trainspotting, in cui Renton, il protagonista, invita, sarcasticamente, a scegliere la vita. Questa, inchinandosi ai precetti consumistici e globalizzati, risponde alla necessità di comprare un maxi-televisore e avere il colesterolo basso. Mark, in preda a delusione, frustrazione, insicurezza e insofferenza, sentimenti disfunzionali scaturiti dall’incapacità di adeguarsi a quello che questa entità sovrasensibile ci chiede, sceglie qualcos’altro.
Quando rimandare si trasforma in patologia
Se da un lato conformarsi alle richieste della società può facilitarne la lettura, dall’altro si permea la necessità di rispettare inclinazioni e desideri personali. Quando si crea attrito tra le aspettative intrinseche e quelle che provengono dall’esterno, spesso si tende a rimandare l’atto della decisione. Questo sposta indiscutibilmente lo stress in avanti, almeno fino all’attimo in cui la scelta diventa obbligata, rischiando in questo modo di generare un accumulo di sovraffaticamento mentale non più facilmente gestibile. Si resta, così, impigliati in un meccanismo di proroghe, dilazioni, posticipazioni e rimandi a oltranza, dal quale si fatica ad emergere.
In questo caso gli studiosi parlano di procrastinazione patologica, delineando una tendenza che dall’esterno potrebbe apparire come espressione di impenitente pigrizia, eludendo una possibile interconnessione con il disturbo d’ansia. Chi di funzionamento cerebrale si intende, ipotizza, infatti, uno stretto rapporto tra l’atto di procrastinare e la volontà di gestire positivamente l’umore: chi rimanda lo fa con l’intenzione di distrarsi dal pensiero o dall’attività che produce malessere.
Nella mente del procrastinatore patologico
Appare chiaro il dismorfismo temporale che si appalesa nella mente del procrastinatore seriale: è incapace di considerare in modo adeguato il futuro, offuscato da questa miopia che distorce il tempo e le sue connotazioni. Ci si ritrova, così, inconsapevolmente immersi in un circolo vizioso senza uscita: si rimanda una azione, poi un’altra e poi quella successiva, finché posticipare non si incorpora nel soggetto come fosse sua appendice. È facilmente intuibile come la compagna di merende della procrastinazione patologica sia l’ansia, apparizione trascendentale dei momenti culmine che, inevitabilmente, si trasforma in panico di fronte ad una scadenza.
Disattendere le aspettative sociali procrastinandone i precetti
Ci si aspetta che un individuo “normo sociale” spunti le caselle della vita in un predeterminato range anagrafico. Diploma a 19 anni, laurea a 25, lavoro appena dopo, mutuo e matrimonio a 26 e poi un figlio nell’immediato. E se sfasa uno stadio? La mancata conquista di uno degli obiettivi previsti, genera rabbia e frustrazione, scatenando una non-azione che diventa, in questo caso, patologica.
Nella società del riempimento, quella segnata dalla concitata e strafogata replezione, dilazionare la risoluzione di un nodo capitale della propria esistenza, si connette inequivocabilmente all’ansia generalizzata di essere sempre in ritardo rispetto ai “traguardi” della vita. Fenomeno appesantito dalla usuale narrativa che ama evidenziare i record e la numerologia da strapazzo, una comunicazione mediatica capeggiata dai vincenti. Quando il procrastinatore evita di svolgere un compito per lui spiacevole, quindi, non è l’atto in sé ad essere rimandato, ma l’emozione negativa ad esso associata.
Smettere di rimandare per ritrovare il benessere
Appare chiaro che la prima esercitazione da sperimentare per smettere, o almeno limitare, di procrastinare, invita a ragionare sui vantaggi e sulle conseguenze positive che si possono ottenere raggiungendo un determinato obiettivo. Questi devono essere raggiungibili nel breve termine e semplici, ridotti all’osso. Modificando la visione delle azioni da compiere, si potranno più facilmente prevedere vantaggi e possibilità, anziché minacce e fallimenti. E poi, che forse è il fondamento di tutto, dobbiamo imparare a perdonarci, smettere di crederci responsabili di una sofferenza generalizzata, levare dalle spalle il peso del mondo intero, imparare, di nuovo, a dare priorità al nostro benessere prima ancora di quello di una società che ci domanda di essere tanto performanti. E allora, solo allora, il tempo toglierà l’elmetto e la spada, ritornando ad esserci alleato.