La causa del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, il riconoscimento della Nakba, la necessità di un risarcimento concreto e morale per il popolo nativo palestinese sono temi da sempre esclusi dai processi di pace. La motivazione può essere ricercata nella negazione da parte di Israele dei delitti commessi prima e dopo la fondazione dello Stato.
Nascita dell’UNRWA
Nel 1949 le Nazioni Unite assunsero la decisione di non coinvolgere l’Organizzazione Internazionale dei Rifugiati nella questione del ritorno dei profughi palestinesi nelle terre da cui erano stati cacciati dai sionisti.
Tale provvedimento fu influenzato dalle pressioni delle organizzazioni ebree-sioniste
preoccupate che potesse sorgere qualche analogia tra la Nakba e ciò che gli ebrei avevano subito durante la seconda guerra mondiale. L’IRO infatti aveva fornito assistenza anche ai profughi ebrei nell’immediato dopoguerra.
Sulla base di queste motivazioni nel 1950 fu costituita un’agenzia speciale per i profughi palestinesi, ovvero l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione.
L’UNRWA però non fu fondata allo scopo di dare attuazione alla risoluzione 194 dell’ONU dell’11 dicembre 1948, che prevedeva il diritto al ritorno dei profughi palestinesi, bensì affinché potesse farsi carico dei loro problemi nella vita quotidiana.
Le mansioni espletate consistevano quindi nel fornire sussidi e un’occupazione, costruire scuole, ospedali e campi permanenti.
Il sentimento nazionale palestinese orientato al riscatto dell’identità e della memoria negate in seguito alla Nakba e all’esilio, furono intercettate dall’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina nata nel 1968 per prendere in mano il destino del popolo palestinese.
Fallimento della Conferenza di pace di Losanna
Nel contesto della Conferenza di Pace di Losanna del 1949, il gruppo di mediazione delle Nazioni Unite e la commissione di conciliazione della Palestina individuarono proprio nel diritto al ritorno dei profughi palestinesi la condicio sine qua non su cui edificare una pace duratura, parallelamente alla divisione della Palestina in due Stati e il riconoscimento di Gerusalemme come città internazionale.
Tutte le parti in causa, gli Stati Uniti, le Nazioni Unite e il mondo arabo in rappresentanza dei profughi palestinesi sembrarono dare il proprio assenso a questa soluzione.
Tuttavia il Primo Ministro di Israele David Ben Gurion e il re di Giordania Abdullah, bramosi di spartirsi ogni centimetro della Palestina, si opposero facendo saltare il primo e unico tentativo di costruire una vera pace duratura.
Pax Americana
La guerra dei sei giorni del 1967 che aveva permesso a Israele di occupare la quasi totalità dei territori dell’ex Palestina mandataria impose con maggiore forza la necessità della pace in Medio Oriente.
Gli USA si proposero come mediatori internazionali intenzionati a scalzare l’Urss da qualsiasi ruolo nei processi di pace in Palestina.
I tentativi di mediazione americani si basarono però sugli equilibri di potere e chiaramente dopo la vittoria conseguita nella guerra dei sei giorni la posizione di Israele ne era uscita rafforzata. In sostanza Israele fu messa nelle condizioni di dettare le linee guida nel processo di pace presieduto dagli Stati Uniti.
Nel frattempo, tra i coloni israeliani emersero due frange, portatrici di due diverse visioni, almeno teoricamente, visto che nei fatti la predisposizione all’apertura verso i profughi palestinesi era carente da entrambe le parti.
Per la fazione più a destra della “Grande Israele” i territori occupati nel 1967 spettano per diritto acquisito su basi bibliche agli ebrei poiché rappresentano il cuore riconquistato dello Stato ebraico.
Anche l’ala più a sinistra, “Peace Now” riconosceva i territori occupati da Israele nel 1967 per poter porre la loro negoziabilità sul tavolo delle trattative di pace.
Tuttavia nonostante le intenzioni espresse a parole, Peace Now non mosse un dito contro l’inarrestabile proliferare di insediamenti intorno a Gerusalemme e nei pressi dei confini del 1967, per decisione dei sostenitori della “Grande Israele”.
La strategia di pace americana fu da un lato responsabile dell’aumento esponenziale degli insediamenti e della diminuzione delle aree negoziabili a vantaggio dei profughi palestinesi, dall’altro favorì la posizione israeliana permettendole di soffocare le rivendicazioni palestinesi liquidandole come terroriste e irragionevoli nello scenario internazionale.
Israele e la rimozione del tema dei profughi palestinesi dai tavoli di pace
Rimuovere dalle trattative per la pace i fatti precedenti al 1967, negare che la Nakba e le pulizie etniche contro la popolazione araba nativa fossero mai avvenute, ha sempre rappresentato un punto fermo nella politica israeliana, così facendo infatti, si aveva la certezza che i delitti commessi restassero impuniti e la soluzione ad hoc per aggirare la questione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi nei territori da cui erano stati scacciati.
Invece per la causa palestinese proprio il diritto al ritorno e il risarcimento morale delle ingiustizie subite rappresentano il cuore dei processi di pace.
La proposta presentata da Israele all’alleato giordano re Hussein con la mediazione del
segretario di Stato americano Kissinger così recitava:
“ Il campo della pace israeliano guidato dal partito laburista considera i palestinesi come non
esistenti e preferisce dividere i Territori Occupati nel 1967 con i giordani”.
Il presidente egiziano Anwar Sadat provò a mediare con il primo ministro israeliano di destra Menachem Begin, offrendosi di riconoscere i territori occupati a patto che Israele concedesse ai palestinesi un’autonomia interna.
La soluzione egiziana consentiva comunque a Israele di occupare l’80% dei territori della Palestina esercitando un controllo indiretto sul restante 20%.
Sotto la presidenza di Rabin la posizione di Israele rispetto all’ammissione della Nakba e al riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi palestinesi non mutò di una virgola, e del resto non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso.
Sebbene l’opinione pubblica occidentale continui ancora oggi a dipingere Yitzahk Rabin come un uomo di pace, aperto al dialogo con il mondo palestinese, il suo curriculum smentisce questa rappresentazione.
Rabin è lo stesso uomo che prese parte alle pulizie etniche del 1948 e che nel 1987 ordinò alle truppe di “spezzare le ossa” ai palestinesi che durante la prima Intifada lanciavano pietre contro i carri armati israeliani.
E sempre Rabin fece deportare centinaia di palestinesi nel 1994, e successivamente, nell’ambito degli accordi di Oslo predilesse la soluzione che finì per rinchiudere la popolazione della Cisgiordania in un bantustan.
Camp David e il tema del diritto al ritorno
Quando nell’estate del 2000 il presidente americano Bill Clinton invitò il Primo Ministro
israeliano e il rappresentante palestinese Arafat al vertice di Camp David, il popolo
palestinese si illuse che finalmente si sarebbe giunti ad accordi di pace in cui sarebbe stato riconosciuto come protagonista.
Il documento originale su cui si fondavano i negoziati di pace di Oslo del 1993 prevedeva ( teoricamente) il ritiro parziale di Israele dai territori occupati entro cinque/dieci anni e la discussione nella fase finale dei negoziati dei temi cari ai palestinesi, ovvero il diritto al ritorno, gli insediamenti e Gerusalemme.
Si pensò che a Camp David fosse finalmente giunto quel momento tanto atteso.
Non fu così.
Ancora una volta gli USA lasciarono che fosse l’alleato israeliano a dettare le linee guida dei negoziati e riconobbero altresì l’esclusività del piano di pace presentato.
Tale piano discusso a Camp David prevedeva il ritiro di Israele dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania e la concessione ai palestinesi del 15% della Palestina storica, i territori assegnati sarebbero stati separati dalle grandi strade di raccordo israeliane, dagli insediamenti, dai campi militari e dai muri.
In sostanza i nativi palestinesi sarebbero stati rinchiusi dentro dei bantustan, dei ghetti.
Per l’ennesima volta, lo stato sionista ometteva totalmente la questione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi e rifiutava di riconoscere Gerusalemme come capitale palestinese.
Arafat che da sempre aveva assunto come punto fermo non contrattabile il riconoscimento morale e legale delle pulizie etniche del 1948, rifiutò di firmare. Contro di lui, Israele e gli alleati americani attivarono immediatamente una macchina del fango, attraverso narrazioni mediatiche atte a screditarlo presentandolo all’opinione pubblica occidentale come un terrorista guerrafondaio palestinese.
A gettare benzina sul fuoco fu la provocazione del primo ministro israeliano Ariel Sharon che nel settembre del 2000 si recò in visita ad al-Haram al-Sharif a Gerusalemme. Davanti all’ennesima umiliazione subita dai palestinesi lo scoppio della seconda intifada fu inevitabile, inizialmente si trattò di una protesta popolare pacifica, la violentissima rappresaglia dei sionisti determinò però il delinearsi di un conflitto fortemente sbilanciato a vantaggio della parte israeliana.
Come oggi siamo tristemente abituati a constatare l’Occidente assistette inerte davanti
all’imponente dispiegamento di carri armati, bulldozer ed elicotteri Apache schierati contro piccole milizie di profughi palestinesi indifesi, intenzionati ad opporre una resistenza tanto sgangherata dal punto di vista militare quanto coraggiosa e determinata sul piano morale.
Il numero di martiri tra i civili palestinesi soprattutto nel campo profughi di Jenin spinse il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 1405 ad inviare sul posto una commissione di inchiesta.
La ferita delle vittime palestinesi
Da un punto di vista pratico i negoziati di pace di Camp David non portarono ai palestinesi alcun vantaggio, tuttavia, l’effetto positivo fu quello di costringere l’opinione pubblica internazionale a fare i conti per la prima volta con il tema della Nakba del 1948 e il diritto al ritorno.
Per la prima volta il mondo veniva messo davanti alla ferita storica e al trauma vissuto dal popolo nativo palestinese.
Israele era terrorizzata proprio dall’idea che il mondo potesse vedere e magari sollecitare le responsabilità sioniste nelle pulizie etniche del 1948 o peggio che il diritto al ritorno dei profughi palestinesi divenisse oggetto di discussione nei negoziati di pace. A tal proposito, una legge apposita approvata dalla Knesset vietò categoricamente che la questione venisse sollevata in sede negoziale.
Il meccanismo di negazione e rimozione della verità storica della Nakba, serve non solo ad invalidare le rivendicazioni dei palestinesi nei processi di pace, ma soprattutto, a fuggire davanti alla responsabilità morale e legale per l’ingiustizia storica delle pulizie etniche.
Riconoscere il male inferto ai nativi palestinesi e il trauma storico e psicologico che tuttora segna le loro esistenze non solo farebbe sorgere interrogativi sui principi del sionismo e sui miti fondanti dello Stato d’Israele, ma invertirebbe i ruoli e ridefinirebbe i concetti, non si potrebbe più parlare di conflitto o guerra tra due parti belligeranti bensì di colonialismo e genocidio, in questa nuova definizione, i nativi palestinesi finalmente vedrebbero realizzarsi il loro desiderio più sentito, essere riconosciuti come vittime di un’entità coloniale sorta per volontà dell’Occidente.
Gli ebrei sionisti temono fortemente di perdere lo status atavico di vittime della storia e di finire per riconoscersi come immagini speculari dei loro carnefici del passato.