Nei giorni scorsi è iniziato il processo a Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, le giornaliste che per prime a settembre hanno reso pubblica la morte di Mahsa Amini, studentessa 22enne pestata a morte dalla polizia iraniana.
Il processo a Niloofar Hamedi e Elaheh Mohmmadi
Niloofar Hamedi, 30 anni giornalista del quotidiano progressista “Sharq”, ed Elaheh Mohmmadi, collega 35enne del giornale “Hammihan”, sono state portate in questi giorni in tribunale per essere processate, l’accusa sarebbe quella di “collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti” e “propaganda contro l’establishment”. Le due giornaliste erano state arrestate a fine settembre dal governo iraniano dopo essere state tra le prime a riportare la storia di Mhasa Amini, la studentessa iraniana di 22 anni che venne arrestata e pestata a morte dalla polizia per aver indossato l’hijab (il velo islamico) in modo sbagliato (anche se ufficialmente le autorità dichiarano che la ragazza ebbe un arresto cardiaco durante un corso di “rieducazione“).
Lunedi è iniziato il processo per Elaheh Mohmmadi, mentre il giorno seguente è toccato alla collega. La prima udienza del processo, come ha scritto su Twitter il marito di Niloofar Hamedi, “si è conclusa in meno di due ore mentre i suoi avvocati non hanno avuto la possibilità di difenderla e i suoi familiari non sono stati autorizzati a presentarsi in tribunale”. Il processo è iniziato quindi, come era scontato, a porte chiuse, senza che nessun avvocato potesse vedere e difendere le due donne che stanno rischiando l’ergastolo, ma anche la pena di morte, soltanto per aver fatto il loro lavoro. La modalità dell’udienza preoccupa l’opinione pubblica estera, senza testimoni esterni il processo potrebbe diventare presto una farsa, fatto solo per dare una parvenza di legalità ad una decisione già presa anzitempo. Ma si sa, riportare notizie che vanno contro il regime teocratico non è permesso, ancora meno se a farlo sono donne.
Il lavoro sul caso Mahsa Amini
Il 16 settembre, giorno della morte di Mahsa Amini, Niloofar Hamedi fu la prima giornalista a documentare l’accaduto, scattando e poi pubblicando su Twitter una foto al padre e alla nonna della ragazza abbracciati nel corridoio dell’ospedale in cui era stata ricoverata, ed in seguito dichiarata morta, la ragazza. Sotto al post Hamedi aveva scritto, in una chiara stoccata al governo di Tehran:
“l’abito nero del lutto è diventato la nostra bandiera nazionale”
Le proteste contro il governo iraniano iniziarono il giorno stesso, dopo che la foto divenne virale in pochissimo tempo e di conseguenza venne sospeso l’account della giornalista; pochi giorni dopo, il 22 settembre, venne arrestata e trasferita in isolamento in un carcere in una cittadina a nord della capitale.
Due giorni dopo l’inizio delle proteste, il 18 settembre, era stata la volta della Mohammadi, che aveva pubblicato un articolo sul funerale di Mahsa Amini, riportando lo slogan che sarebbe poi stato usato in un lungo e in largo durante le contestazioni contro il regime teocratico: “Donna, vita, libertà“. La morte della Amini ha provocato un’ondata eccezionale di proteste, che ha visto scendere in piazza anche moltissime donne stanche del regime, alle quali Tehran ha risposto duramente, iniziando una violenta repressione dei manifestanti, con migliaia di arresti, centinaia di morti negli scontri e successive condanne a morte, alcune delle quali eseguite in pubblico.
Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi sono state inserite nella lista delle 100 persone più influenti del 2023 da Time Magazine, hanno ricevuto il “Louis M Lyons Award 2023 per la coscienza e l’integrità nel giornalismo” e, di recente, il premio “Guillermo Cano per la libertà di stampa mondiale” dall’Unesco. Riconoscimenti non dati a caso, ma che vanno a sottolineare il ruolo fondamentale che figure come loro giocano oggi nel mondo del giornalismo, figure controcorrente che non hanno paura di far setnire la propria voce, anche rischiando in prima persona.
L’importanza della libertà di stampa
Non è un caso se i primi a fare le spesa di una dittatura o di un regime politicamente chiuso come quello teocratico presente in Iran sono i giornalisti. La diffusione delle notizie è un punto cruciale per qualsiasi stato, e a maggior ragione lo è per uno stato governato come l’Iran, che non ci tiene a far sapere al mondo cosa succede al suo interno, abusi e violazioni dei diritti umani compresi: i panni sporchi è meglio non farli vedere al mondo esterno, è così che si evitano interferenze indesiderate. Come scriveva George Orwell nel suo 1984, romanzo distopico che forse così tanto distopico a conti fatti non è, tenere sotto controllo l’opinione pubblica è il primo passo per mantenere il potere, di conseguenza eliminare quelle voci che remano contro il governo non può che essere una priorità. Censura, rimozioni degli account social, minacce, arresti e perfino condanne a morte eseguite pubblicamente sono solo alcuni dei metodi che vengono usati nei regimi di tutto il mondo per impedire ai giornalisti di riportare le notizie. La libertà di stampa e di parola è uno dei diritti basilari di uno stato che si rispetti, nel 2023 non dovrebbe nemmeno essere messo in discussione, eppure ci troviamo ancora qui a parlarne, come se fosse una cosa nuova, da scoprire e da conquistare; ma non è così. Per fortuna ci sono persone come Niloofar Hamedi ed Elaheh Mohammadi che, anche se i regimi cercano in ogni modo di bloccarle e zittirle, non si fermano mai e continuano, rischiando spesso la loro incolumità, a fare la cosa più naturale del mondo: raccontare la verità, anche a chi non la vuole sentire.
Marco Andreoli