Se dico “palazzo”, a cosa pensate?
Un bambino, una bambina probabilmente, penserebbe a qualcosa di alto, una di quelle cose che per guardarle interamente, bisogna spingere il collo indietro e il naso in su; un ragazzo correrebbe subito al pensiero di quel palazzo da cui, ogni mattina, alla stessa ora, esce lei. E quell’attimo gli basta. Mio padre, credo, prenderebbe ad intonare “Un albero di trenta piani”, una delle sue canzoni preferite e la memoria lo accompagnerebbe subito al primo palazzo, in cui quella Svizzera, piena di promesse e mancanze e rimpianti, lo accolse; un pessimista penserebbe subito ad un palazzo che crolla; un ambientalista, invece, temerebbe l’ennesima vicenda di abusivismo; una persona anziana si chiederebbe immediatamente se c’è l’ascensore ed una, un promoter, sgranerebbe gli occhi pensando a tutte le persone che ci vivono dentro.
Perché dire palazzo, come ogni altra parola, è dire tanto. E l’Accademia della Crusca non ce ne voglia, ma le emozioni, i ricordi, le paure e le opposizioni, superano tutti i suoi dizionari e le sue lezioni. E lo fanno così significativamente, che se dico “palazzo” a Dresda, in Germania, qualcuno risponderà “Musica!!”. E avrà ragione di farlo: perché a Dresda, quando piove, c’è un palazzo che suona. A Dresda, quando si apre l’ombrello, quando ci si ripara sotto ad un portico, quando anche Oscar Wilde, diventa un discreto copricapo, un palazzo prende a suonare.
Lo spettacolare palazzo è stato chiamato Neustadt Kunsthofpassage ed è un’idea di Christoph Rossner, Annette Paul e Andre Tempel, divenuta un’opera architettonica che per la sua originalità e bellezza, non passa inosservata neanche quando è in silenzio, cioè quando non piove. Quando, invece, questo accade, ne consegue che, per mezzo di imbuti di acciaio e di canali organizzati in un sistema di smaltimento dell’acqua, la struttura produce suoni musicali.
Ed è musica. Non è banalità, non è sciocchezza, non è frivolezza: è musica. È poesia. E a donarcele, per mezzo dell’arte umana, è il cielo. Forse per ricordarci che, nonostante tutto, bisogna cantare, bisogna suonare. Per ricordarci che la musica non può finire, non deve finire.
E quando di note proprio non se ne ricordano, quando ci si accorge che ogni melodia ha perso il suo ritmo originario, ecco che piove. Ecco che è musica. Ecco che i bambini e le bambine si meravigliano, gli amori si reinventano, i papà ritornano al tempo in cui una canzone bastava per sentirsi a casa, il pessimista si sorprende, l’ambientalista si rincuora e il o la promoter, magari, getta in aria i suoi fogli: e si ascolta. E si resta immobili, sotto una pioggia ed una musica amiche, amanti ed amate. Perché non c’è melodia senza amore, senza emozione, senza passione, senza la seconda voce di ciascuna persona che ascolta.
E ascoltando la riproduzione di quei suoni che provengono da quel palazzo così azzurro, così particolare, risulta facile anche immaginare quel Principio, perché comunque, ad ogni modo, un Principio c’è stato: in cui era calma e non scoraggiamento, in cui era melodia e non caos, in cui era attesa e non illusione. Un Principio che, chissà, magari nasconde la sua volontà, le sue intenzioni qui e là, giocando con le arti e con le intelligenze umane, suggerendo loro idee e modi, avverandosi, rivelandosi anche così, ai margini di una strada, sulla facciata di un palazzo che suona grazie alla pioggia.
E che piova. Che piova ancora.
E che sia musica. Musica, ancora.
Deborah Biasco