Il secondo film di Matteo Rovere (Veloce come il vento) sceglie le nebulose origini di Roma per soggetto e come tutti gli interessati alla nascita della Città Eterna si affida alla leggenda di Romolo e Remo. I due giovani pastori si muovono in una Preistoria che sta per diventare Storia, in un Lazio appena uscito da un’esondazione terribile e dove i popoli di Alba e Veio sono dominatori incontrastati della regione.
Liberatisi nel mezzo di un rituale di lotta e sacrificio per cui erano stati anch’essi catturati, i mitici gemelli cercano di trovare la sicurezza perduta con il loro nuovo manipolo di uomini, tutti ex-prigionieri. Remo (Alessandro Borghi), ancora in forze, diventa il capo del gruppo e protegge il fratello ferito da ogni insidia.
Costretta a seguirli è la vestale Satnei (Tania Garribba) che predice la morte violenta di uno dei due fratelli: il sangue dell’uno sarà la benedizione dell’altro. A scatenare la tragedia è l’incapacità di Remo di accettare il volere divino, la sua volontà d’anteporre gli affetti e la sua persona alla logica misteriosa del Destino. Questi suoi limiti diventano presto il trampolino di lancio per il successo di Romolo (Alessio Lapice), che delle divinità ha rispetto e comprensione.
Il progetto di Rovere è ambizioso quanto favorito dai seguenti fattori: il contributo degli studiosi (tra cui Donatella Gentili di Tor Vergata) nel processo di ricreazione del protolatino parlato nel film; un cast di attori bravissimi tra cui spicca un Borghi ferino e spinto sulle note di un delirio crescente; l’ambientazione naturale nel Bosco del Foglino e Manziana con cui le scenografie di Tonino Zera entrano in sintonia.
Il primo re descrive perfettamente i suoi nuclei tematici, come il rapporto tra umano e divino, la hybris che è anche una maledizione dovuta alla mancanza di lucidità, di comprensione del proprio posto nel mondo.
Le sue pecche risiedono semmai nella sfera tecnica: la fotografia di Ciprì, per quanto efficace nel cogliere la luce naturale della Natura nemica del film, non ha slancio o inventiva nel valorizzare i personaggi. Il tono epico è suggerito dalle musiche di Andrea Farri che non risultano evocative o penetranti ma fastidiose a lungo andare. Le sonorità tecno si addicono poco al film che ne risulta sommerso, quasi soffocato in certi punti.
C’è sempre il sospetto che dietro allo stile del film ci sia il fantasma della grammatica di Netflix con tutti i pro e i contro del caso. Resta comunque il fatto che la seconda opera di Rovere sia un esperimento che riapre le porte del cinema storico nel panorama italiano. Lentamente il nostro cinema sta ritrovando uno slancio sopito nei generi e nelle potenzialità espressive: meglio sfruttarle e potenziarle al massimo per crescere in risultati.
Antonio Canzoniere