Fino a qualche mese fa – prima che scoppiasse la pandemia di COVID-19 – l’uso della mascherina sembrava fosse quasi “stigmatizzato” al di fuori dei paesi asiatici, dove al contrario erano già largamente diffuse, sia come misura di protezione dalle infezioni, sia dall’aria inquinata. A questo punto, è diventato chiaro che saranno invece l’”accessorio must” della stagione primavera-estate 2020, in qualunque parte del mondo. D’altra parte, il ruolo delle mascherine come elemento di “moda” non è una novità (basti osservare fra le sottoculture di Harajuku, in Giappone), ma la storia della protezione facciale, nonché aerea, risale già ai tempi della peste: un momento di evidente bisogno delle “prime mascherine”.
Probabilmente tutto ebbe inizio con la famigerata “peste nera” (quella ancora prima de “I promessi sposi”), che a partire da metà 1400 fece ritorno a più riprese per affliggere l’Europa, fino poi a Renzo e Lucia. Già allora – come si nota in alcuni dipinti rinascimentali – erano in uso rudimentali “mascherine” per proteggere il naso e la bocca: fatte di stoffa, non erano che fazzoletti che evitassero di respirare quei “miasmi” che si credeva fossero la causa della trasmissione delle malattie.
L’evoluzione dei primi dispositivi anti-contagio arrivò però verso il 1600 (ora sì, ai tempi di Renzo e Lucia) quando il medico Charles de Lorme (che operò tra l’altro alla corte di Luigi XIV, il “Re Sole”) ideò quella tenuta che siamo soliti associare ai “medici della peste”.
[In caso non abbiate presente l’aspetto tipico di un “medico della peste” il video qui lo illustra brevemente] :
In realtà, non erano veri e propri medici: il loro ruolo consisteva piuttosto nel censire il contagio, attraverso la diagnosi degli appestati. Per farlo in totale (presunta) sicurezza, era chiaramente necessario proteggersi: è per questo che il dr. De Lorme consiglia loro l’uso delle prime mascherine, con tanto di “filtro”. Per proteggersi dai miasmi, i medici della peste indossavano infatti maschere dal naso adunco, che veniva riempito di aromi, spezie – fra cui fiori secchi, lavanda, timo, aglio, mirra, chiodi di garofano, talvolta spugne imbevute di aceto… – e paglia. In questo modo, anche gli occhi rimanevano protetti, grazie alla presenza di lenti di vetro. In aggiunta, i “medici” indossavano una veste idropellente lunga fino ai piedi, insieme a guanti, cappello, e un bastone che serviva loro per visitare – già allora – i pazienti a debita distanza. Una poesia inglese del XVII secolo li descrive così:
«Come qui si vede nell’immagine,
I medici compaiono a Roma,
Quando ai pazienti sono chiamati,
Nei luoghi colpiti dalla peste.
I loro cappelli e cappotti, di nuova fattura,
Son fatti di tela cerata tinta di nero,
I loro cappelli [le maschere] hanno occhiali di vetro,
I loro becchi imbottiti di antidoti,
L’aria malsana non può danneggiarli,
Né metter l’uomo dottore in allarme…»
Per l’uso di queste particolari, prime “mascherine”, i medici della peste erano anche noti come “dottori col becco” (Beak Doctors). È evidente però che – allo stesso modo delle mascherine FFP2/FFP3 con valvola, rinominate “mascherine egoiste” – queste misure erano esclusivamente pensate per proteggere dal contagio chi le indossa. (Il video qui sotto spiega la differenza fra mascherine “egoiste” e altruiste“) :
Per le prime mascherine “altruiste” – vale a dire quelle chirurgiche – bisogna aspettare due scoperte fondamentali: prima di tutto, si capisce che a trasmettere le malattie infettive come la peste non sono i miasmi, gli olezzi, il puzzo, bensì agenti patogeni come virus e batteri. La seconda riguarda un certo Carl Flügge, igienista tedesco, il quale dimostra che quelle stesse particelle potevano diffondersi tramite la normale conversazione. Di conseguenza, diventa indispensabile per i dottori – e soprattutto i chirurghi, per non infettare le ferite – indossare maschere per coprire naso e bocca. È così che nel 1897, il chirurgo austriaco Johann von Mikulicz Radecki ci parla di una maschera chirurgica composta da uno strato di garza; altra ipotesi è che sia stato il chirurgo francese Paul Berger – anch’egli “allievo” degli insegnamenti di Flügge – a indossarne una durante un’operazione. Berger scrive di “un impacco rettangolare di sei strati di garza, cucito sul bordo inferiore al suo grembiule di lino sterilizzato ed il bordo superiore tenuto contro la radice del naso da corde legate dietro al collo“.
All’origine delle ormai introvabili, moderne mascherine FFP2, FFP3, N95 (e tutte le sigle che indicano le loro capacità filtranti) invece, troviamo un medico cinese, durante la cosiddetta “Terza peste” che imperversa fra fine 1800 e inizio 1900. L’epidemia colpì in particolare la Manciuria (in Cina) fra 1910 e 1911, ed è qui che il dottor Lien-teh Wu ne riconosce la forma polmonare: egli sviluppa quindi mascherine più sofisticate, composte da strati di garza più cotone, oltre che perfettamente aderenti al viso. A raccontarci la sua storia è Christos Lynteris, antropologo della medicina specializzato in epidemie e zoonosi all’Università di St. Andrews: spiega che dopo la scoperta di Lien-teh Wu, altri modelli di mascherine iniziano a diffondersi, talvolta piuttosto “bizzarri”, ad esempio cappucci dotati di occhiali, simili a maschere da sub (un po’ come le mascherine antenate dei dottori col becco quindi). Ad affermarsi comunque sono le mascherine di Wu, che non soltanto si rivelano empiricamente più efficaci nel proteggere dal contagio, ma anche più semplici da realizzare. Impenna quindi la produzione di mascherine, e a indossarle sono personale medico, soldati, e a volte anche le persone comuni. Secondo Lynteris infatti:
Non solo proteggevano contro la diffusione dell’epidemia; le mascherine erano diventate un simbolo della medicina moderna, che guardava l’epidemia dritta negli occhi.
Iniziano a rappresentare dunque un’icona, attirano l’attenzione sulle pagine dei giornali, e resistono fino allo scoppiare nel 1918 della cosiddetta “Spagnola” (ultimamente spesso paragonata a COVID-19). Durante la Spagnola quindi, in alcuni posti come San Francisco vengono pubblicate liste di personale obbligato a indossare una mascherina in servizio, e pure i cittadini – come in alcune città oggi – sono caldamente invitati a utilizzarle in pubblico. L’associazione pandemia-guerra-obbligo delle mascherine probabilmente porta a fare di questo oggetto – già a quei tempi – un simbolo di patriottismo e senso civile.
(Mentre al momento, della guerra non dovremmo sfruttare nemmeno la metafora.)
È proprio la concomitanza con i tempi di guerra comunque, oltre alle necessità degli operai in miniera, a incentivare le industrie verso mascherine sempre più efficaci, dotate di filtri in vetroresina per proteggere dai fumi e dai gas circostanti. Pare fossero inoltre lavabili e riutilizzabili, anche se ancora piuttosto ingombranti, poiché coprivano quasi interamente il viso, oltre a essere abbastanza pesanti per via dei filtri. La storia delle mascherine inizia successivamente a intrecciarsi con quella degli operai edili, i quali erano costretti a lavorare fra l’altro con l’amianto, ma consideravano queste maschere protettive ancora troppo “scomode” per lavorare (a dispetto della propria incolumità). L’ingegneria delle mascherine passa poi per il settore delle confezioni regalo, che offre materiali ideali e più leggeri, e dei reggiseni, che offrono la possibilità di sperimentare con questi. Proprio dai reggiseni infatti, proviene l’ispirazione per la forma delle nuove mascherine, che però filtrano ancora solamente la polvere. Inizia la ricerca quindi di filtri migliori, capaci di impedire il passaggio di virus e altre microparticelle.
Andando avanti con il corso della storia – e soprattutto con la diffusione di altre malattie infettive come HIV e SARS – le mascherine sono andate via via migliorandosi con valvole e filtri, rincontrando infine il personale medico-sanitario e le sorti dei malati. Eppure fino a pochi mesi fa, le associavamo solamente più a volti asiatici, surreali scene di metropolitane e incroci affollati nel pieno dell’inquinamento; a vedere invece certi casi odierni poi, sembrerebbe davvero di essere tornati – fra “untori” e maschere in stoffa fai-da-te – ai tempi della peste, oltre a essere evidente come questo virus ci abbia colto irrimediabilmente impreparati. Forse proprio quest’occasione tuttavia, ci consente di capire, successivamente ripensare le “nostre” mascherine: così da farle evolvere verso ulteriori prestazioni certo, senza dimenticare l’ecologia (mentre orripilanti mucchi di mascherine e guanti gettati a terra si vedono già in città), soprattutto accessibilità per chi effettivamente ne ha bisogno in tempo di crisi.
Alice Tarditi