Domenico Maceri
Professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California
La sfida di Dean Phillips a Joe Biden nel contesto delle primarie democratiche ha sollevato questioni cruciali riguardo al futuro della leadership del partito e alle dinamiche della prossima corsa presidenziale.
“Credo che il presidente Biden sia un uomo straordinario, un uomo che ha salvato il nostro Paese, e senza dubbio il miglior individuo per il compito quattro anni fa”.
Così Dean Phillips, parlamentare democratico del Minnesota, in un’intervista alla Public Broadcasting System (Pbs) mentre descriveva l’attuale presidente Usa. Phillips ha continuato sottolineando l’integrità, competenza e decenza di Biden.
Dopo aver cantato le lodi, però, Phillips ha detto che l’attuale inquilino della Casa Bianca dovrebbe passare la torcia. Al minimo Phillips ha suggerito che il Partito Democratico dovrebbe riflettere seriamente sull’importanza di altri leader di sfidare Biden alle primarie del Partito Democratico.
In realtà, la sfida di Dean Phillips a Joe Biden ha già convolto altri nomi. Robert F. Kennedy, nipote del presidente John F. Kennedy, e Marianne Williamson hanno dichiarato la loro candidatura per la nomination del Partito Democratico. Kennedy, avvocato ambientalista, in parte per la notorietà del suo cognome, è riuscito a creare una strada per la nomination raggiungendo al momento il 15 percento dei consensi, secondo i sondaggi. La Williamson, una scrittrice con tematiche spiritualistiche, otterrebbe il 4 percento. Biden si troverebbe al 62 percento, quindi sano e salvo.
Phillips, però, insiste che altri dovrebbero scendere in campo, specialmente candidati moderati, preferibilmente da uno dei cosiddetti “swing States”, gli Stati in bilico che tipicamente decidono le elezioni presidenziali. In particolare Phillips preferirebbe la candidatura di Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan, o Tim Walz, governatore del Minnesota, che hanno svolto ambedue un ottimo lavoro. Aggiungerebbe Rafael Warnock, senatore della Georgia, e forse qualche altro come Gavin Newsom, governatore della California. Nessuno di questi ha però indicato interesse a sfidare Biden anche se Newsom si è fatto un nome in buona parte come leader dello Stato più popoloso e importante. Si è parlato recentemente di un dibattito fra lui e Ron DeSantis, governatore della Florida, e candidato alla nomination repubblicana. I due rappresenterebbero i poli opposti sia geograficamente che ideologicamente.
Phillips ha paura che l’inevitabilità della candidatura di Biden potrebbe alla fine ripetere l’elezione del 2016 nella quale anche Hillary Clinton era stata presentata come inevitabile portabandiera del Partito Democratico. È vero che alle primarie Bernie Sanders, il candidato dell’ala sinistra, le diede filo da torcere, ma alla fine la Clinton prevalse. Il risultato disastroso, per Phillips, ha visto Donald Trump conquistare la Casa Bianca, che ha fatto tanti danni nel Paese e anche nel resto del mondo. Quando Biden si candidò nel 2020 lo fece per negare a Trump un secondo mandato che sarebbe stato peggio del primo. Va ricordato, però, che Biden nel mese di marzo del 2020, quando aveva quasi conquistato la nomination del suo partito, disse che vedeva la sua candidatura come “un ponte”. Aveva suggerito che non si sarebbe presentato per un secondo mandato.
La preoccupazione di Phillips nella ricandidatura di Biden si concentra su alcuni fattori notissimi. Prima di tutto c’è l’età: Biden ha 80 anni e se dovesse vincere la rielezione nel 2024 ne avrebbe 82 all’inaugurazione. C’è inoltre poco entusiasmo da parte dell’elettorato democratico per una sua ricandidatura. Inoltre la sfida di un candidato credibile per la nomination potrebbe essere un presagio alla sua sconfitta presidenziale nel 2024. La storia ce lo indica.
Quando un presidente in carica, poco popolare, si presenta per il secondo mandato e deve affrontare un avversario per la nomination i risultati sono tutt’altro che positivi. Nel 1976 il presidente in carica Gerald Ford fu sfidato da Ronald Reagan per la nomination del Partito Repubblicano. Ford alla fine prevalse ma fu eventualmente sconfitto da Jimmy Carter il quale ebbe un’esperienza simile 4 anni dopo. Nel 1980 Carter era poco popolare in politica estera per la rivoluzione iraniana del 1979 e la cattura di 52 ostaggi statunitensi all’ambasciata di Teheran. Edward Kennedy, senatore del Massachusetts, sfidò Carter per la nomination dandogli filo da torcere ma alla fine dovette gettare la spugna. Carter, però, all’elezione generale del 1980 fu sconfitto da Reagan. Nel 1992, George H. W. Bush, fu sfidato da Pat Buchanan, candidato ultra destra, lo sfidò per la nomination, ma anche lui perse. All’elezione Bush dovette anche affrontare Ross Perot, candidato populista, che gli rubò voti, aprendo la strada a Bill Clinton per la conquista della Casa Bianca.
Non c’è dubbio che una sfida per la nomination al presidente in carica potrebbe essere fatale. In parte si deve alle risorse necessarie per sconfiggere gli avversari ma anche perché conferma la mancanza di padronanza del suo partito. Trump, il probabile portabandiera repubblicano alle presidenziali del 2024, ne sa qualcosa. Non si è presentato al primo dibattito del suo partito per le primarie poiché i sondaggi lo danno strafavorito e non vuole legittimare i suoi avversari. Allo stesso tempo vuole suggerire che la nomination del suo partito la tiene già in tasca.