Era il 5 marzo 2016 quando le frontiere di Ungheria, Croazia, Bulgaria e Grecia sono state ufficialmente chiuse, spezzando di fatto la cosiddetta rotta balcanica e lasciando decine di migliaia di profughi in una condizione di totale stallo.
Solamente il mese scorso ne sono approdati in Europa 30.131, alcuni attraverso il Mediterraneo, altri percorrendo la Turchia. Secondo le stime dell´UNHCR, sono 74.370 le persone distribuite lungo i territori di Grecia, Bulgaria, Macedonia, Serbia, Ungheria e Croazia. Di questi stati, l’unico a non aver serrato i confini è la Serbia, che al momento ospita 7.740 rifugiati, profughi e richiedenti asilo, la gran parte dei quali di origine afgana e pakistana. Esseri umani che non possono proseguire il loro viaggio, e neanche tornare nella loro terra, vittima del regime talebano: bloccati tra e dalle barriere.
A raccontare gli effetti di un cambiamento radicale nelle politiche di accoglienza di alcuni paesi, sono non solo i migranti stessi, ma anche i volontari che li soccorrono. Da mesi gli esponenti delle più importanti organizzazioni umanitarie denunciano abusi avvenuti lungo le recinzioni erette da nazioni che, se non appartengono già all’Unione Europea, aspirano a prenderne parte. I campi-prigione bulgari sono per esempio solo uno dei prodotti creati dal fenomeno migratorio.
Racconta Gulajan, un giornalista afgano approdato da poche settimane nello stato serbo: “Ho lasciato il villaggio di Logwar circa 6 mesi fa. In Bulgaria sono stato fermato e chiuso in un campo profughi per quattro mesi. I campi bulgari sono delle vere e proprie prigioni. Non vieni trattato da essere umano; mi hanno schernito e malmenato. Ora vivo a Belgrado dietro la stazione, in condizioni di degrado, ma posso affermare che il peggio è passato”. Questa è solo una delle tante dichiarazioni che ci arrivano da Belgrado.
Tutti in Serbia sono in attesa di qualcosa; molti aspettano che le frontiere si aprano, altri di poter rischiare nuovamente l’attraversamento illegale. Nel frattempo il grande freddo è in arrivo e per questi profughi l’unica soluzione rimane il “cuore della gente”. Come già accaduto lo scorso inverno, molte famiglie serbe permettono ai profughi di dormire nei sottoscala o negli androni dei palazzi che circondano la zona della stazione. Altri, che non accettano, finiscono per dormire tra le rovine dell’ospedale che fu squarciato dalla Nato durante i 78 giorni di bombardamento iniziati il 24 marzo 1999. È soltanto una forma di pane e qualche conserva a testa, che il governo serbo può permettersi di assicurare a questi esseri umani.
“Non valutano neanche le richieste d’asilo”. A dichiararlo è la croce rossa locale che di fatto sa che la Serbia non ha nessuna norma che tratti questo argomento.
Il 6 aprile il Belgrade Centre for Human Rights e il Macedonian Young Lawyers Association (MYLA) hanno pubblicato A dangerous game, un report che denuncia casi di abusi vissuti dai migranti lungo la balkan route. Basato su circa 140 interviste, il rapporto fa riferimento anche a vicende di vere e proprie deportazioni e respingimenti di massa.
Molte persone testimoniano di essere state bloccate in gruppo dalle forze di sicurezza ungheresi, senza che le loro richieste d’asilo venissero valutate caso per caso. Ricordiamo che l’espulsione collettiva viola l’art. 4 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo (CEDU). Le guardie di frontiera hanno persino usato gas lacrimogeni, manganelli e praticato elettroshock. È tristemente noto il caso di un´intera famiglia, a cui era stato promesso il trasferimento in uno dei centri di accoglienza governativi, che è stata invece abbandonata in pieno inverno al confine con la Bulgaria. Intanto sono forti e decisi gli appelli dei membri delle associazioni umanitarie affinché l´Unione Europea si impegni affinché siano rispettati i diritti fondamentali di questi individui. Si spera che le loro grida non restino inascoltate.
È tempo ormai che l’Europa faccia i conti con la propria politica sulle immigrazioni riconoscendo errori e orrori commessi. Le quote di assorbimento sono solo un espediente inutile che non risolve il problema della deportazione di massa che sta avvenendo già da troppo tempo. Ostinarsi a voler difendere i propri confini non è una espediente utile ma soltanto un modo per non affrontare le proprie responsabilità davanti al fenomeno dell’immigrazione che è creato da guerre e regimi oligarchici che costringono le masse a spostarsi.