Esportare democrazia: tutte le guerre dei Presidenti americani

presidenti americani

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Non si può dire che sia stata una settimana tranquilla, la prima del 2020. Prima i missili dell’Iran sulle basi USA in Iraq, poi l’assassinio del generale iraniano Soleimani e un continuo rimbalzo di minacce di vendetta tra Washington e Teheran, di chiamate alle armi della popolazione e di tensione internazionale. La situazione pare leggermente raffreddata, ma è davvero così? Ma soprattutto: Trump è così diverso dagli altri presidenti americani?





Il presidente Donald Trump, come il suo stile gli impone, ne ha approfittato per ricordare che gli Stati Uniti hanno l’esercito meglio equipaggiato al mondo e che tutto sta andando bene. La stampa internazionale e  l’opinione pubblica hanno parlato di un gesto dissennato di Trump: a leggere i giornali sembra che gli Stati Uniti siano la Repubblica di San Marino. Di cosa ci stupiamo: gli altri presidenti americani hanno contribuito alla cooperazione pacifica nel mondo? Gli Usa provengono  da un secolo di pace, turbato solo dallo spirito belligerante di un presidente che forse, a Natale, ha giocato un po’ troppo a Risiko?

Non è forse un po’ ipocrita?




Definire l’attuale presidente degli Stati Uniti brutto e cattivo non è difficile. Sostenere che questa ultima e scellerata mossa voglia cementare l’opinione pubblica americana, facendo leva sul patriottismo, in vista del suo (improbabile) impeachment e delle elezioni 2020, nemmeno. C’è da dire che però, tutti i presidenti statunitensi, Repubblicani e Democratici, dal 1945 a oggi hanno portato avanti almeno una guerra durante il loro mandato. E non solo come eredità del governo precedente.  Sembra un meccanismo inevitabile: se diventi presidente degli Usa, almeno un paese lo bombardi. Magari pure con il beneplacito degli altri Stati, o con il loro silenzio assenso. Quest’ultimo gesto degli Usa, come gli altri, da settant’anni a questa parte, conferma che la legge internazionale non è uguale per tutti. Anzi: proprio in questo campo, vige ancora la legge del più forte. Se hai l’atomica, se sei una potenza militare e se sei nel Consiglio dell’Onu e godi del diritto di veto, allora puoi fare quel che vuoi. Puoi esportare democrazia a modo tuo, eliminando un presunto criminale di guerra a casa sua, senza che nessuno dica nulla. A conferma di questo, si sono levate le tiepide reazioni degli Stati Ue, con la Germania che, tramite la portavoce di Angela Merkel, ha sottolineato come, il generale Soleimani fosse comunque nella black list dei più temuti terroristi antioccidente.

Troppo semplice quindi, prendersela con Trump. E forse un po’ ipocrita, anche. Partiamo dal secondo dopoguerra, quando in teoria le nazioni più influenti della Terra si sono guardate in faccia e si sono promesse di ripartire da altre basi, prime tra tutte la pace e la cooperazione internazionale. Se lo sono promesso, ma forse gli Usa, in quel momento, erano già a esportare democrazia.




Harry Truman (1945-1953, Democratico)

Il presidente della Guerra di Corea. Scoppia nel 1950 a causa dell’invasione della Corea del Sud, stretta alleata degli Stati Uniti, da parte dell’esercito della Corea del Nord comunista. L’invasione comporta una rapida risposta dell’ONU: su mandato del consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti, affiancati da altri 17 Paesi, intervengono militarmente nella penisola per impedire una rapida vittoria delle forze comuniste. Circa 2 milioni di morti. 

Dwight D. Eisenhower (1953-1961, Repubblicano)

Eredita la Guerra di Corea e giunge all’armistizio. E’ fortemente convinto che gli Stati Uniti debbano essere più aggressivi nei confronti dell’URSS. Si impegna allora in un escalation di tensione ben nota: la Guerra Fredda. Protagonista è anche il suo segretario di stato, John Foster Dulles. Dà impulso a un “new look” per la strategia di contenimento, chiedendo una maggiore fiducia nelle armi nucleari contro i nemici statunitensi in tempo di guerra. Parla poi di “rappresaglia massiccia” e, insieme al presidente, si lancia in dichiarazioni relative al Medio Oriente (crisi di Suez del 1956): si punta alla “distruzione sistematica” dei 1200 maggiori centri urbani appartenenti al Blocco Orientale e alla Cina, tra cui Mosca, Berlino Est e Pechino, con le loro popolazioni civili annoverate tra gli obiettivi primari

John Fitzgerlad Kennedy (1961-1963, Democratico)

Il suo mandato, tra i presidenti americani, è uno dei più brevi, concluso dal suo assassinio a Dallas. In pochi mesi, comunque, rafforza la presenza statunitense in Vietnam: i consiglieri passano da qualche centinaio a 16 mila. E’ il presidente della Baia dei Porci, il fallito tentativo di rovesciare il regime di Fidel Castro. Messo in atto da un gruppo di esuli cubani anticastristi, addestrati dalla CIA, che progettano di conquistare Cuba a partire dall’invasione della parte sud-ovest dell’isola. Tre giorni di combattimenti, a nemmeno tre mesi dal suo insediamento.

Lyndon Johnson (1963-1969, Democratico)

Eredita la guerra del Vietnam e la porta avanti con ancora più aggressività. Nel 1965, Johnson punta anche all’invasione della Repubblica Domenicana: l’obiettivo è quello di rovesciare il governo socialista di Juan Bosch Gavino. Come molti altri presidenti americani, si preoccupa della pace internazionale a modo suo.

Richard Nixon (1969-1974, Repubblicano)

Pone fine alla guerra del Vietnam, non senza bombardamenti a tappeto sulle città e le campagne del Nord. In segreto, attacca pure Cambogia e Laos. Le colpe della Guerra del Vietnam vengono spesso addossate a lui: non che sia del tutto sbagliato, ma ben due presidente democratici prima di lui dovrebbero condividerne il fardello.

Gerald Ford (1974 -1977, Repubblicano)

Non combatte nessuna guerra. E’ vero. Ma comunque chiede al Congresso il permesso di poterne avviare una. Infatti, nonostante gli accordi di Pace di Parigi del 1973, nel dicembre del 1974, le truppe del Nord del Vietnam  si dirigono verso il Sud. Il governo del Sud del Vietnam chiama in soccorso gli Usa. Il presidente Ford non vede l’ora di gettarsi a capofitto nella missione, ma il Congresso gli nega il permesso.

Jimmy Carter (1977-1981, Democratico)

L’URSS invade l’Afghanistan e Carter invia aiuti militari segreti ai mujaheddin afghani. Lo fa tramite l’Arabia Saudita e il Pakistan. Molti sostengono che sia questa la scintilla delle guerre e del terrorismo odierno: Osama Bin Laden compare proprio in questo periodo.

Ronald Reagan (1981-1989, Repubblicano)

Tra i presidenti americani più apprezzati, chiude il capitolo della Guerra Fredda. Bene. Ma nel 1983 invade Grenada, un’isola del mar dei Caraibi, con  l’operazione Urgent Fury. Vuole evitare che un regime filo marxista vada ad affiancare quello cubano nella stessa area. Poi bombarda Tripoli nel 1986 per colpire Gheddafi.

George H. W. Bush (1989-1993, Repubblicano)

Combatte e vince la prima guerra del Golfo, dopo l’attacco da parte di Saddam Hussein del Kuwait. Nell’89 fa invadere anche Panama da 24 mila soldati americani: lo stato è piccolo, ma qui si è appena insediato il dittatore Manuel Noriega.

Bill Clinton (1993-2001, Democratico)

Invia e poi ritira le truppe statunitensi dalla Somalia. Qualche anno dopo, ordina degli attacchi aerei contro i serbi in  Bosnia. L’obiettivo è obbligarli a trattare. Dopo gli accordi di Dayton, impiega una forza di pace nei Balcani. Procede poi a due ritorsioni: in Afghanistan e in Sudan, dopo gli attacchi di Al Qaeda nel 1998. Clinton è protagonista anche della guerra del Kosovo e della caduta di Milosevic.

George W. Bush (2001-2009, Repubblicano)

Il presidente delle due ultime guerre statunitensi: ha attaccato l’Afghanistan e l’Iraq in risposta all’attacco delle Torri Gemelle. La guerra in Afghanistan trova l’appoggio della popolazione statunitense, mentre la seconda viene aspramente criticata dall’opinione pubblica americana e mondiale.

Barack Obama (2009-2017, Democratico)

Tra i presidenti americani più amati, passa la campagna elettorale a proclamarsi contrario all’invasione dell’Iraq. Sono in molti a sostenerlo per la promessa del ritiro delle truppe da Baghdad e Kabul. Vince il Nobel per la Pace. Interviene militarmente in Siria, Libia, Iraq e Afghanistan. Bombarda lo Yemen, la Somalia e il Pakistan. Alcuni analisti riportano che durante i suoi mandati gli Stati Uniti sono stati sempre in guerra.

“Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri” 

La domanda quindi è una sola: cosa porta tutti i presidenti americani a fare almeno una guerra durante il proprio mandato? Non è l’appartenenza politica, perché democratici e repubblicani non si distinguono sul tema. Cosa si nasconde dietro le missioni di pace, fatte per esportare democrazia? Forse la risposta è semplice. L’interesse nazionale.  Compatta l’opinione pubblica attorno alla stessa causa e al nemico comune, oltre ad alterare lo scenario elettorale: è successo anche per  George W. Bush, rieletto quando era dato per spacciato.

Ogni volta Washington bombarda e vuol dare l’impressione di essere stata tirata per la giacchetta, costretta a intervenire per dei fini superiori. Bisognerebbe dire loro grazie, visto che ci salvano dal terrorismo e dai cattivi: gli altri Paesi non osano dire nulla. Nel caso dell’Iran, il gioco delle parti è semplice: gli USA hanno ottenuto la morte di un nemico, senza rimproveri da parte delle organizzazioni internazionali e senza scossoni particolari sui mercati. Trump, ancora una volta, ha incarnato il perfetto modello presidenziale statunitense: ha mostrato i muscoli e ha assunto il ruolo di protettore della pace, facendo la guerra. Solo che è stato un po’ meno “elegante” di qualche suo predecessore: non ha usato il travestimento della cooperazione internazionale. 

Elisa Ghidini

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