“Dicono che c’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare. Io dico che c’era un tempo sognato, che bisognava sognare”.
E quel tempo si è appena concluso alla vecchia stazione di Leonforte. Là dove passavano antichi binari di un treno a cremagliera carico di minatori, dopo quasi un secolo, si è fermato il convoglio della 35^ edizione del Premio Città di Leonforte. E sì, ha ragione Fossati. Il tempo per seminare e per aspettare ha fatto il proprio corso. E’ stato lungo ma proficuo. Due anni di sogni, visioni trascritte su fogli pieni di cancellature. Progetti ed energia per guardare lontano, oltre ogni confine territoriale. Occorreva estirpare ciò che di incolto restava, prima.
Recepite le intenzioni dell’assessore alla cultura, Angelo Leonforte, ogni sforzo, ogni goccia di sudore è stata premiata lunedì, quando dal treno è scesa tanta, troppa gente carica di aspettative. In pochi avrebbero scommesso sul fascino esercitato dalla micronarrativa. “E’ cosa da finti scrittori – dicevano -, roba per chi non ha voglia di impegnarsi”. Eppure la brevità ti costringe ad essere un maestro della parola, a tracciare percorsi inediti nella scrittura camminando sull’orlo del precipizio oltre il quale c’è il banale. E’ toccare l’anima del lettore in poche righe, roba da veri creativi.
Forse per questo, ad aggiudicarsi il podio della micronarrativa è stato Giovanni Cassano, un giovanissimo pugliese dagli occhi grandi e le fattezze del sognatore. Ha raccontato guardando dove nessuno guarda mai o, tutt’al più, lancia un’occhiata direzione alto-basso, a rimarcare un posticcio senso di alterità fatta di vacuo. Il mondo, dalla prospettiva di un clochard, appare più lento e dilatato. E certo, quei microracconti teatralizzati da attori professionisti come Federico Fiorenza e Lorenza Denaro, sul palcoscenico/sala d’aspetto di una stazione prendevano vita.
Ti immaginavi lui – il clochard – e subito dopo vedevi una spiaggia, col corpo di Aylan cullato dalle onde. Vedevi un surreale esercito di uomini affamati, di cibo come di libertà, pronti a gustare lasagne fumanti o a scattare foto dal buco di un muro. In mezzo, una foto il cui nume tutelare è Cesare Pavese, “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Quella foto con tutti i toni del grigio, così plumbea seppur luminosa, profuma di pietra bagnata e quasi ti pare di sentire anche il profumo di bosco umido, oltre il parapetto.
Quando dietro le quinte si lavorava alla realizzazione del Premio, non era previsto che la sinestesia fosse protagonista assoluta della manifestazione. Su questi sentieri solcati dall’intreccio di scrittura e teatro si è inserito il racconto di Mario Incudine, Premio alla sicilianità 2016. Chi se non un’anima migrante, fatta di cunti e di canti come di musica e teatro, poteva raccontarsi secondo quanto suggeritogli dai propri sensi?
Dai profumi di grano e citronella, gli odori e i colori della sua “culla” e quei primi passi mossi dentro La casa di Giufà, a Enna. E ancora, la direzione dell’Orchestra Etno Mediterranea, una formazione di 18 musicisti provenienti da ogni angolo del Maghreb e che ha ospitato Hevia e la cantante tunisina Zorha Lajnef. Un assaggio di cous cous, prelibatezza dal sapore multiculturale, e le parole di Incudine prendono per mano la platea, accompagnandola nei viaggi verso mete lontane, eppure così vicine. Perché se il pubblico, in Cina, comincia a cantare in siciliano, significa che dopotutto la distanza è relativa.
E’ il momento del tatto. Mario viene bendato e le sue mani iniziano a delineare i contorni di un libro, non uno a caso. Quel Casellante di Andrea Camilleri che Mario ha portato in teatro assieme a Moni Ovadia. Vuoi che un talentuoso cantastorie dei tempi moderni non ti racconti l’incontro con Camilleri in modo suggestivo? E quando arriva il momento del quinto senso, l’udito, tra una cucchiaiata di cous cous e l’altra, il duetto con la giovane cantautrice Alessandra Formica fa da apripista a un vero e proprio concerto. Nessuna scaletta, eppure niente viene lasciato al caso. Con l’inseparabile Antonio Vasta alla fisarmonica, dopo la dolcezza di Canticu, un susseguirsi di emozioni, culminate in una standing ovation finale.
Il capostazione, Sandro Rossino, vero e proprio mattatore, ha gestito quella sala d’aspetto in modo da alternare letteratura e teatro, nella terra in cui profonde e forti sono le radici di questa antica arte. Non un teatro, ma ogni teatro. C’è quello contemporaneo di Cucù, premio alla migliore regia e miglior caratterista (Gabriele Zummo), portato in scena dalla palermitana Officina Tea(l)tro, che in un sottoscala siciliano condensa frammenti di vita ai margini, dove il ritmo della parola è veicolo di emozioni pure; c’è poi il teatro narrativo che ha ottenuto il premio del gradimento di pubblico, Segni di mani femminili della compagnia catanese Banned Theatre.
Nella corporalità delle movenze, nelle immagini forti di una videoinstallazione, racconta della comunità ebraica che popolò la Sicilia a partire dal IV secolo d. C fino alla cacciata, avvenuta nel 1492. E ancora, il teatro corale. Quello dell’ebolitana Compagnia di Teatro del Bianconiglio, che ha ottenuto il premio al migliore attore protagonista (Umberto Del Priore) con la sua Settàneme. In un limbo dantesco si ritrovano sei anime, sei archetipi delle tradizioni popolari, magistralmente orchestrate dalla Morte. Nel passionale vortice di tammurriate, ci si ritrova come davanti a uno specchio su cui è riflesso il bagaglio culturale di ciascuno. E non poteva mancare il teatro della risata, Xanax, premiato come miglior spettacolo e come miglior attrice protagonista (Ilaria Verdini), della compagnia C.L.AE.T di Ancona.
E c’era tanto pubblico, che al termine della serata non voleva andar via. C’era la Sicilia. La Campania, la Puglia, le Marche, la Toscana. Due anni fa era il tempo di seminare. Conclusa questa edizione, è ancora tempo di sognare.
Alessandra Maria