Il dilemma è il seguente: “Se fossi sola in un bosco, preferiresti imbatterti in un uomo o un orso?”. La domanda ha iniziato a guadagnare popolarità sulla piattaforma di social media Tiktok a partire da fine aprile, dopo un video pubblicato da Screenshot HQ diventato poi virale.
Nelle ultime settimane, sui social media, si è diffuso un dilemma intrigante che ha suscitato reazioni sorprendenti e importanti dibattiti sulla sicurezza delle donne e la violenza di genere.
In un primo video pubblicato sul canale di cultura pop, viene chiesto alle donne se preferirebbero rimanere bloccate nel bosco con un uomo o un orso. Il 99% delle donne risponde in modo clamoroso e senza esitazione di preferire l’orso, suscitando reazioni indignate da parte degli uomini, i quali protestano affermando che “non tutti gli uomini sono stupratori” – il discusso “not all men”. In un secondo video, agli uomini viene chiesto chi preferirebbero, tra un uomo e un orso, che la loro figlia incontrasse e la loro risposta è unanime: l’orso.
Le risposte a questo enigma sono state variegate e hanno offerto uno sguardo profondo sulla percezione della sicurezza femminile nella società contemporanea. Mentre alcuni potrebbero considerare l’orso come una minaccia più immediata e fisica, molti hanno scelto di incontrare l’animale piuttosto che rischiare un incontro con un uomo sconosciuto. Questo fenomeno mette in luce una realtà sconcertante: le donne si sentono spesso più sicure in presenza di animali selvatici che in compagnia degli esseri umani.
Le donne si trovano a fronteggiare insicurezza nelle strade, rinunce e preclusioni, violenza, mancanza di servizi adeguati e una sottorappresentazione nei processi decisionali riguardanti la pianificazione urbana. In questi termini, ogni soggetto femminilizzato si ritrova a dover convivere con un “costo della paura” per tutto l’arco della sua vita, che si traduce in stress e costrizioni, che a loro volta hanno ripercussioni economiche, sociali e psicologiche.
Sempre più donne praticano sport da combattimento e seguono corsi di autodifesa, e ciò è in parte dovuto alla necessità di sentirsi sicure.
La violenza di genere (GBV – Gender-Based violence) raccoglie sotto la sua definizione tutte le forme di abusi che avvengono sulla base della propria appartenenza di genere. Il 18% di donne e ragazze, dall’adolescenza all’età adulta, è ancora vittima di violenze domestiche (percentuale che sale al 24% nei Paesi meno avanzati), dovute spesso a convivenze forzate. Secondo UN Women, tra le categorie più vulnerabili c’è quella delle donne rifugiate e sfollate, per motivi di guerra o clima.
L’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul, trattato internazionale per la prevenzione e il contrasto alla violenza di genere, ma solo nel 2021 sono state 41 le donne uccise in quanto tali: i dati Istat riportano che nel 2020, causa pandemia, sono state più di 49 le donne – ogni 100.000 – a essersi rivolte al numero verde perché vittime di violenza.
L’uccisione di una donna per motivi di genere è la punta dell’iceberg della sovrastruttura piramidale della rape culture, in italiano “cultura dello stupro”: si tratta di un tipo di assetto sociale in cui la violenza di genere è normalizzata e alla base del quale ci sono i comportamenti tipici della mascolinità performativa indotta dagli stereotipi di genere, che aprono alla normalizzazione delle varie forme di violenza contro la donna (victim blaming, slut shaming, linguaggio sessista, boys will be boys…); risalendo si possono trovare forme di reato come lo stalking e la condivisione non consensuale di materiale intimo (impropriamente definito revenge porn), lo stupro, la violenza domestica.
Quest’ultima spesso racchiude molti, se non tutti, gli altri tipi di violenza che esistono: quella sessuale, definita dalla Convenzione di Istanbul come “atti compiuti su una persona senza il suo consenso”; quella economica, ossia “quando l’aggressore ha controllo completo sul denaro della vittima e altre risorse o attività economiche” (Fawole, 2008); lo stealthing, ovvero il sabotaggio della contraccezione; e ancora la violenza psicologica, verbale, fisica.
Durante il primo lockdown le chiamate ai centri antiviolenza italiani sono aumentate del 73% secondo l’Istat e contemporaneamente è scaduto il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020”, che illustra e coordina tutte le politiche di contrasto alla violenza di genere nel nostro Paese. Questo è stato rinnovato, per ulteriori tre anni, con ritardi considerevoli, causando gravi conseguenze ai centri antiviolenza e le case rifugio, distinguendo regioni più virtuose di altre.
È fondamentale fornire alle donne risorse e supporto per affrontare la violenza di genere. Ciò include l’accesso a rifugi sicuri, servizi di consulenza e supporto legale. È anche importante educare gli uomini sulla prevenzione della violenza di genere e promuovere modelli positivi di mascolinità che incoraggino il rispetto e l’uguaglianza di genere.
La questione della sicurezza nello spazio pubblico rappresenta una problematica di grande rilevanza e urgenza, e affrontarla richiede soluzioni strutturali che contribuiscano alla realizzazione di uno spazio, pubblico e privato, che sia equo, sicuro e inclusivo.