Nell’opinione comune l’opera di evangelizzazione delle Americhe è invariabilmente associata a scenari apocalittici, ed è in effetti innegabile che la conquista del Nuovo Mondo abbia trovato la sua giustificazione teorica proprio nella diffusione del Vangelo. Gli stessi ecomienderos spagnoli, in cambio del loro contributo alla cristianizzazione (forzata) delle popolazioni locali, potevano disporre liberamente di esse quale manodopera per i lavori più sfiancanti, nonché quali soggetti da cui esigere tributi sempre più esosi. E’ tuttavia parimenti importante rilevare che nella Bolla pontificia Veritas ipsa (1537) papa Paolo III affermò che “gli indios sono persone autentiche” (Indios veros homines esse), stabilendo la scomunica per chiunque osasse ridurli alla schiavitù o sottrarre loro dei beni. Non mancarono peraltro voci autorevoli del clero spagnolo in difesa delle popolazioni locali, come il celebre domenicano Bartolomé de las Casas, che condannò con asprezza le atrocità perpetrate dai colonizzatori, e la stessa Inquisizione spagnola, introdotto nelle Americhe nel 1570 sotto il fervente re cattolico Filippo II, rinunciò a giudicare gli indios, ritenuti non ancora sufficientemente maturi nella loro fede. Se la popolazione delle Americhe passò dai 12-20 milioni ‒la stima è assai incerta‒ a poco più di un milione non fu dunque per via del fanatismo religioso, ma principalmente per le malattie portate dai conquistatori e per lo sfruttamento indiscriminato della manodopera locale. Né era peraltro intenzione dei colonizzatori decimare la popolazione locale, visto che da essa percepiva un cospicuo tributo. In luogo di genocidio, cioè sterminio delibrato di una popolazione, è pertanto assai più corretto parlare di etnocidio, nel senso dello sradicamento di un sistema socio-culturale, un processo di distruzione e successiva ricostruzione identitaria che si originò certamente da una forte pressione esterna, ma che vide anche un ruolo non trascurabile da parte delle popolazioni indigene. E’ dunque in tale contesto che si deve inserire l’evangelizzazione degli Huave, etnia che ancora oggi risiede presso l’istmo di Tehuantepec, nel sud-est dello stato messicano di Oaxaca, fra costa del golfo di Tehuantepec e la Laguna Superiore. Tale popolazione è oggetto fin dal 1979 oggetto di ricerca da parte del Professor Alessandro Lupo, docente di Etnologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”, che lo scorso ha tenuto un interessantissimo seminario per introdurre noi dottorandi in Storia, Antropologia e Religioni nell’affasciante ambito della spiritualità mesoamericana.
Gli Huave sono oggi fortemente cattolici: anche in virtù di una capacità di fissazione storica ai limiti dell’inesistente, essi si ritengono cristiani da tempi inenarrabili, benché la piena evangelizzazione abbia avuto luogo solo alcuni secoli. La loro vita è inoltre scandita dalle festività cattoliche, come quelle dei due patroni di San Mateo del Mar, principale centro abitato degli Huave: la Virgen de la Candelaria, cioè la Vergine della Candelora (2 febbraio) e San Matteo (21 settembre). Ma proprio in occasione di tali festività cattoliche si mostrano ancora in modo piuttosto evidente allo sguardo di un ricercatore esterno elementi di forte persistenza dei culti primigeni, che secondo categorie mediterranee non del tutto adeguate si potrebbero definire “pagani” o “politeisti”. Così in occasione del Corpus Domini la danza di Davide e Golia che si tiene presso San Mateo del Mar riecheggia nei costumi e nelle denominazioni la lotta fra il fulmine o arciere (Neajeng) e il serpente ctonio (Omalndiük), responsabile dei cicloni e dei maremoti. E’ necessario che Davide/Neajeng sconfigga il suo avversario e lo “decapiti” per evitare tali cataclismi, ma è parimenti importante che, dopo aver sventato la minaccia, ricollochi la testa del serpente al suo posto, per assicurare la giusta quantità d’acqua. Anche la festa di san Matteo (21 settembre) si lega fortemente ai cicli naturali, poiché la protezione del santo, associato al potere del fulmine, viene invocata in occasione del secondo picco della stagione delle piogge.
Il più evidente retaggio del passato precristiano risiede tuttavia in un altro aspetto, che costituisce forse l’elemento più interessante di tutta la spiritualità degli Huave: la coscienza della perdita definitiva del proprio “doppio”, di un alter ego di natura animale o meteorologica che avrebbe assicurato in un remoto passato poteri e conoscenze straordinarie. Tali alter ego, noti nella lingua locale come tonal o nagual, avrebbero consentito agli Huave di vedere oltre il proprio orizzonte, di tutelare il benessere e la sicurezza della propria comunità, di affermarsi sui rivali Zapotechi (cui effettivamente rubarono le campane nel 1788) e persino di condizionare in proprio favore i cicli naturali. Tale rapporto fra uomo ed nagual sarebbe stato inoltre così stretto che in caso di ferimento o morte dell’uno le conseguenze si sarebbero riverberate anche sulla controparte. Una credenza analoga è stata riscontrata anche in Guatemala: il capo della resistenza agli Spagnoli avrebbe guidato le sue forze avvalendosi del suo nagual, un Quetzal, l’uccello sacro dei Maya, e sarebbe caduto solo dopo l’uccisione dell’alter ego.
Tornando agli Huave, essi erano con vinti che tutto il popolo possedesse poteri sovrumani, ma riconoscevano alle figure prominenti dei nagual particolarmente potenti, come il giaguaro, l’aquila, il fulmine o il Quetzal. Anche il colibrì, a dispetto delle sue dimensioni ridotte, era particolarmente apprezzato, per via del suo letargo, associato alla morte e rinascita delle divinità, per la sua capacità di difendersi strenuamente e per il fatto di cibarsi di puro nettare. A variare era inoltre non solo la potenza dell’alter ego ma anche il grado di coscienza e controllo di tale rapporto. I maggiorenti conoscevano perfettamente i loro potenti nagual e ne avevano un pieno controllo, ma ciò non valeva per tutti: in alcuni casi il rapporto era più debole, e per accertare l’identità dell’alter ego si ricorreva a diversi stratagemmi. Il modo più curioso consisteva nello spargere della cenere attorno all’abitazione dopo una nuova nascita: l’alter ego si sarebbe manifestato lasciando la sua impronta sulla cenere cosparsa
Se diversi erano i modi in cui entrare in contatto con il proprio doppio, non vi è dubbio che il momento più importante della spiritualità incentrata sui nagual fosse il rituale lustrale, cui i fanciulli erano sottoposti fra gli 8 e i 12 anni. In riva al golfo di Tehuantapec e al cospetto della bellissima divinità Nijmior Cang, essi non solo venivano solennemente congiunti al proprio doppio, ma venivano uniti anche al proprio futuro coniuge: tale connubio, voluto dalla divinità, si sarebbe così rivelato prospero e fecondo, i due sposi sarebbe vissuti a lungo e sarebbero morti serenamente nello stesso momento. E proprio contro tale solenne ritualità sarebbe intervenuta in modo deciso l’opera di cristianizzazione, secondo la memoria collettiva degli Huave. L’elaborazione mitologica su tale tema è assai vasta ed è pressoché impossibile stabilire rapporti di priorità cronologica: le differenti varianti vanno perciò intese come infinite sfaccettature di un’unica realtà mitica.
Vi è tuttavia una versione a mio avviso particolarmente rilevante al fine di comprendere il rapporto degli Huave con la propria memoria collettiva. Secondo tale variante, la dea Nijmior avrebbe avvertito gli abitanti dell’imminente arrivo di un sacerdote cristiano, rappresentante del gobierno, che li avrebbe battezzati nella sua fede. Durante la permanenza dei conquistadores, la dea si sarebbe allontanata, ma essi avrebbero dovuto scrivere il suo nome, in modo da poterla invocare di nuovo alla partenza degli inviati del gobierno. Ma ciò non sarebbe stato fatto, per la negligenza degli Huave. Quando i conquistadores se ne andarono, nessuno si sarebbe ricordato il nome di Nijmior, e così non sarebbe più stato possibile conoscere il proprio nagual. Venuta meno la possibilità di sottoporre i propri figli al rito lustrale della dea, gli Huave avrebbero deciso di affidarsi da allora in avanti soltanto al rito battesimale impartito dai sacerdoti cristiani. Njmior, che prima viveva presso la Laguna Superior, si sarebbe allora immersa per sempre nell’Oceano, che proprio da quel momento avrebbe acquisto il suo caratteristico moto ondoso.
Tale versione del mito di rifondazione cristiana dell’etnia Huave mostra dunque un evidente senso di colpa di fronte alla perdita della propria identità originaria: l’aver dimenticato di scrivere il nome della dea può essere infatti identificato con un atteggiamento di difesa troppo blanda delle tradizioni, della cui importanza ci si sarebbe resi conti soltanto quando esse erano ormai perdute. Allo stesso tempo va tuttavia rilevato che nel mito non vi è spazio per il cedimento emotivo: l’affermazione della nuova fede è sentita come ineluttabile, e d’altra parte gli Huave tengono molto alla loro fede cristiana, ritenendosi superiori per pietà religiosa ai loro vicini. Essi avrebbero dunque perduto i loro poteri straordinari sulla terra, e con essi la possibilità di sottomettere la natura e i rivali, ricevendo tuttavia in cambio una via per la salvezza eterna. Ma forse, quando al termine della processione della Virgen de La Candelora lasciano in suo onore dei fiori sulla spiaggia e volgono il loro sguardo alla sterminata superficie dell’Oceano, gli Huave provano ancora moto nostalgico per la bella Nijmior e i suoi meravigliosi doni, irrimediabilmente perduti tra i flutti del “mare vivo”.