La ragione per la quale il primo numero di Playboy fu in grado di vendere 54.000 copie fu probabilmente il famoso scatto di Marilyn Monroe che posava per Tom Kelly, distesa nuda su un tessuto di raso rosso. Ma su quello stesso numero l’acquirente di Playboy avrebbe trovato brani tratti da Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, un racconto di adulterio del Decamerone, un articolo di economia in cui si trattava ironicamente il tema degli oneri che spettavano a un uomo dopo il divorzio dalla moglie, un pezzo sulla musica jazz e un reportage fotografico su come arredare lo studio per l’ufficio moderno. La celebre rivista erotica presenta, al momento della sua nascita, una inedita convivenza tra fotografie di nudo di ragazze pin-up e servizi di architettura, design, pezzi su Andy Warhol, Jack Kerouac, James Baldwin e Frank Lloyd Wright.
Paul B. Preciado, autore del saggio Pornotopia, edito in Italia da Fandango, è in grado di trasferire al lettore lo stesso senso di stupore davanti alla scoperta della grande stratificazione di Playboy che probabilmente aveva provato lui stesso in prima persona quando, facendo zapping in tv in una serata in cui non riusciva a prendere sonno, aveva ascoltato Hugh Hefner, nella sua solita mise caratterizzata da pigiama, pantofole e vestaglia, dichiarare in un’intervista l’importanza che aveva avuto l’architettura nell’edificazione dell’impero che aveva creato nel 1953 fondando la sua rivista.
Con una scientificità capace di scardinare pregiudizi e moralismi, Preciado analizza con uno stile brillante e sinceramente divertente le ragioni profonde che fecero di Playboy la rivista che nel 1959 superava già il milione di copie vendute, surclassando testate come Esquire e il New York Times. Quella che fu in grado di creare Hefner col suo giornale fu una vera e propria rivoluzione, che non passava solo attraverso la sfida alle leggi anti oscenità in vigore negli anni Cinquanta, ma scardinava i principi su cui si basava la convenzionale e perfetta famiglia americana del dopoguerra per risemantizzare l’estetica maschile e scatenare un movimento di liberazione sessuale dell’uomo. Lottando contro lo stereotipo della moglie/donna di casa e del maschio/padre/lavoratore, Playboy offre al single una seducente alternativa al matrimonio: il diventare, per l’appunto, un playboy, il cui spazio di azione include anche l’abitare una dimensione domestica, che fino ad allora era stata appannaggio esclusivamente femminile. Il carattere erotico della rivista, a questo punto, è quasi un obbligo considerando che la Guerra Fredda aveva fatto dell’omosessuale uno straniero, al pari dell’ebreo e del comunista, e solo la combinazione ideata da Hefner poteva risultare vincente nell’intento di promulgare l’immagine di un uomo a cui “piace stare in casa”. Nell’ottica quindi di una mascolinizzazione del domestico, che fugasse il sospetto che l’operazione fosse, al contrario, quella di una femminilizzazione dello scapolo e del divorziato, la casa del playboy è modernissima e tecnologica; è un rifugio urbano che ben presto arriverà ad assumere una concretezza sempre maggiore con l’ideazione di elementi d’arredamento come il Roatating Bed, il letto multiaccessoriato, rotondo e girevole, o la Kitchenless-Kitchen, una “cucina senza cucina”, nella quale scompaiono non solo gli utensili della tradizione, sostituiti da nuovi macchinari all’avanguardia, ma anche la storica regina di quello spazio, la donna.
Playboy ribaltava nelle sue pagine convenzioni fino ad allora mai discusse: le riviste “da interno” erano per le donne, quelle “all’aria aperta” da uomo, alla mitologia del marito/soldato si sostituisce quella dell’amante/spia, su modello di James Bond, così che franano le barriere tra ciò che è privato e ciò che è pubblico, tra interno ed esterno, tra nudo e vestito, tra fedeltà e promiscuità. Proseguendo nel gioco dei binomi, si comprende lo spirito della mascotte della rivista: il coniglietto giocoso in smoking incarna perfettamente la contraddizione tra selvatico e domestico. Da un logo vincente come questo, non poterono che scaturire una serie di conseguenze di altrettanto successo: la partner perfetta per il giovane coniglio non può che essere la “coniglietta”, una playmate che Preciado sottolinea essere stata definita prima geograficamente che sessualmente. È letteralmente la “ragazza della porta accanto”, una ragazza pulita, priva di minacce per uno scapolo che non deve attraversare la soglia della sua dimora per entrare in contatto con lei; è la nuova segretaria d’ufficio, la commessa del negozio preferito, la fanciulla che pranza al tavolo vicino, ed è così a portata di mano che nel 1958 l’articolo “Fotografa la tua playmate” invita lo stesso lettore a scovare volti nuovi.
Il successo di Playboy come rivista e come brand è cresciuto esponenzialmente nel corso degli anni, dando origine alla Playboy Mansion – il “Love palace di 32 stanze” che sarà sito di incontri esclusivi, set fotografico e luogo delle riprese del primo reality show della storia della televisione –, al Big Bunny, jet privato di Hefner dotato di pista da ballo, terme romane e letto ellittico, e a tutta una mitologia sul creatore di questo impero e il suo entourage di accompagnatrici. In un articolo del Times datato 1983 venivano messi audacemente a confronto i due massimi colossi della fine del diciannovesimo secolo, la Disney e Playboy, due realtà specializzate nella vendita di fantasie, e la chiusura scherzosa del pezzo attribuiva il successo delle due grandi industrie al “segreto comune a Mickey e alle conigliette: le grandi orecchie”. È triste constatare come quelle grandi orecchie, che avevano permesso ad Hefner di ascoltare le esigenze della nazione elaborando una risposta convincente e persuasiva, capace davvero di rivoluzionare una intera società e un modo di pensare, fossero unicamente tese a prestare attenzione a un pubblico preciso, il proprio, quello maschile, e non alla controparte femminile, la cui emancipazione seguirà altre strade e arriverà tempo dopo. Linnea Eleanor “Bunny” Yeager è l’unica donna di cui si ricorda il successo professionale come fotografa della rivista e vincitrice del premio “miglior fotografo americano dell’anno”; per quel che riguarda il destino delle altre figure femminili, al di là della fama che le accompagnò in quanto conigliette, è emblematicamente sintetizzato dalle fattezze del quarto piano della Mansion di Hefner. Se nei piani inferiori l’edificio era pensato come un labirinto di perdizione per uomini, un club esclusivo e raffinato, al piano superiore ospitava dormitori con letti allineati o cuccette, bagni in comune, arredamento austero, dove le inquiline, selezionate per essere addestrate secondo il “Manuale della Bunny” a incarnare il prototipo femminile proposto dalla rivista, godevano di uno stipendio giornaliero che, per quanto apparentemente buono, non rappresentava nemmeno lo 0,05% dei benefici che la loro immagine produceva per l’azienda.
Del saggio Pornotopìa di Paul B. Preciado rimane un senso di meraviglia rispetto alla grandezza dell’impresa compiuta ma, allo stesso tempo, la lettura lascia un velo di malinconia, perché non manca di accarezzare le ombre del progetto, dalla questione di genere a quella razziale fino alla dipendenza dalle droghe dello stesso Hefner. Resta da chiedersi se sarebbe stato possibile compiere uno strappo di pari portata senza che nessuno rimanesse ferito nel tentativo titanico di scardinare per sempre una consuetudine sociale e, se sì, come mai nella sua esistenza Hugh Hefner non sia mai arrivato a cogliere l’importanza di questo aspetto se così tante volte ci si ritrova a chiedersi, scorrendo i capitoli del testo di Preciado, “Geniale, questa idea è così geniale che ci avrei voluto pensare io”.
Martina Dalessandro