Il culto retorico del popolo non sorprende in un paese il cui atto di nascita, la Dichiarazione di indipendenza, è redatto “in the Name, and by Authority of the good People of these Colonies”, e la cui carta costituzionale fondante inizia, allora e ora e sempre, con “We the People of the United States”.
Si può discutere di che cosa si parli quando si parla di popolo, e cercherò di farlo qui sotto, molto rapidamente. Per il momento mi limito a ricordare il fatto banale che in inglese (a differenza, mi sembra di capire, di altre lingue europee) la parola people è plurale.
È plurale persino quando, come nella Dichiarazione di indipendenza, si invoca il diritto di “one people” a separarsi da un altro, e dovrebbe quindi esprimere il massimo di singolarità corporata. È plurale persino quando, come nella Costituzione, si pronuncia come un dio in prima persona e lo fa, appunto, con un collettivo “We”.
Essendo plurale, la parola suggerisce non un corpo unico e organico ma la somma di una pluralità di soggetti diversi. Tanto più che può essere usata con l’iniziale P maiuscola, e allora indica la sede e fonte della sovranità repubblicana, ma anche con l’iniziale minuscola, e allora indica l’insieme generico dei cittadini, le persone, la gente insomma, e non è la stessa cosa.
Ciò accade, per esempio, anche nel testo della Dichiarazione di indipendenza dove ci sono varie ricorrenze con la minuscola e tre con la maiuscola, e la differenza di significato nei due casi salta agli occhi. Fra l’altro, la maiuscola implica anche l’articolo determinativo che vuol dire: attenzione, o gente!, entra il Sovrano, “the People”.
Ma il “popolo” non necessariamente comprende tutta la popolazione, non sempre, non per tutti. Nei documenti di fondazione del paese, nella Dichiarazione appunto e nella Costituzione, così come nelle dichiarazioni dei diritti e nelle costituzioni delle singole ex-colonie diventate stati indipendenti, il Popolo con la maiuscola era la fonte astratta e sublime di legittimità dei nuovi governi, il nuovo sovrano che prendeva il posto del vecchio in carne e ossa, il monarca di Londra.
L’invenzione del popolo era il mito fondante delle repubbliche (con le loro promesse di self-government e i loro poteri derivanti dal “consenso dei governati”), della rivoluzione (con il diritto di cambiare la forma di governo) e della federazione che si intendeva formare (basata su un concetto inaudito, un unico popolo degli Stati Uniti). Uscendo dal mito, tuttavia, fu subito chiaro che il termine sarebbe stato oggetto di ulteriori qualificazioni da parte degli attori storici materiali, per decidere chi davvero esso includesse, e soprattutto chi escludesse.
Già nel fuoco della rivoluzione, secondo il linguaggio dei rivoluzionari il popolo era la forza storica attiva che si batteva per la giusta causa, che voleva l’indipendenza, che agiva in armi contro i britannici: era dunque formato dai Patrioti. Il ché voleva dire che non ne facevano parte legittima gli indifferenti alla causa, forse i due quinti dei residenti, che desideravano continuare a farsi i fatti loro; e soprattutto i Lealisti, quei coloni, un quinto dei residenti, che all’indipendenza si opponevano, che volevano restare nell’impero, che mantenevano le vecchie fedeltà.
Fra Patrioti e Lealisti le accuse di tradimento erano reciproche, come si conviene in una guerra civile. Poi ci fu chi vinse e chi perse, e ciò decise la controversia. Alla fine della guerra svariate decine di migliaia di Lealisti lasciarono il paese verso ciò che restava dell’impero britannico nelle Americhe, il Canada a nord e le Indie occidentali a sud.
Nella nuova repubblica ci furono altri confini da tracciare, altri parametri di inclusione ed esclusione. In primo luogo, i padri fondatori erano consapevoli che il popolo sovrano, il cerchio del noi in “We the People”, comprendeva solo i residenti di origini europea. In Nord America convivevano tre popolazioni, i bianchi liberi (come ormai si diceva nella società razzializzata e schiavista), gli africani quasi tutti schiavi e gli americani nativi indipendenti ed emarginati, ma una sola era parte costituente della repubblica. Ci volle un secolo perché questa concezione fosse un po’ aggiustata. In secondo luogo, il popolo in quanto cittadinanza repubblicana capace di auto-governarsi, quello che andava alle urne, che aveva diritto di voto, era ancora più complesso da definire.
C’erano limiti di proprietà, di censo, di capacità di leggere e scrivere, e quando questi limiti vennero abbattuti, intorno agli anni trenta dell’Ottocento, e si cominciò a parlare di suffragio universale e di democrazia, emerse il limite principale e categorico, quello di genere. L’esercizio della sovranità nei “nostri sistemi mascolini”, come a suo tempo li aveva chiamati John Adams, era un gioco maschile, anzi una fortezza maschile; le donne appartenevano a un’altra sfera.
Infine arrivò l’idea romantica di nazione e parecchi scoprirono che il popolo della nazione avrebbe dovuto essere una comunità omogenea per lingua, religione e discendenza, e che il popolo genuinamente repubblicano poteva essere solo di razza anglo-sassone. Nacquero così dei movimenti xenofobi che videro gli stranieri di diversa origine, a cominciare dagli irlandesi cattolici, come un pericolo per l’integrità fisica, morale, culturale e politica dell’americanità. Non era facile in un paese di immigrati, ma anche lì, come in altri paesi di immigrati, nacquero sentimenti che si definirono “nativisti”, usando in un altro senso la parola nativo.
Ma come agiva il popolo, qualunque fosse la definizione dei suoi confini?
Agiva forse come un unico corpo con interessi comuni che erano facilmente riconoscibili – bastava ragionarci un poco per individuarli? Era questa un’idea del repubblicanismo settecentesco condivisa da molti padri fondatori. George Washington, per esempio, diceva: se non ci fosse un’opposizione organizzata a mestare nel torbido, il popolo si muoverebbe secondo il principio di unanimità, “perché la massa dei nostri cittadini non richiede altro che comprendere una questione per decidere su di essa correttamente”.
A non essere convinto di ciò era James Madison, che ne discusse in un celebre saggio del Federalist. Nel popolo della grande repubblica, scrisse, convivono interessi contrastanti di tipo economico, sociale, regionale; ciascuno di essi porta alla formazione di classi diversi con sentimenti e opinioni diverse e quindi di partiti e fazioni con specifiche visioni dei problemi e specifiche ricette per risolverli. Contenere questi sviluppi non è possibile perché non è possibile rimuoverne le cause. Non si possono conculcare gli interessi dei cittadini o eliminarne le opinioni, le passioni, con atti di governo. La natura della società, la natura umana, la libertà repubblicana lo impediscono. I rimedi sarebbero peggiori del male.
Anche Madison, dunque, si inchinava alla retorica che vedeva le divisioni del popolo in partiti come un male. Ma poi faceva il salto logico, politico e storico: quelle divisioni e le loro espressioni politiche, cioè lo spirito di partito e di fazione, erano un dato inevitabile e strutturale; era compito delle istituzioni repubblicane gestirle e includerle nell’ordinario funzionamento del governo. All’inizio dell’Ottocento queste idee entrarono nella cultura politica di una party democracy moderna e ormai democratica, in cui si dava per scontato che il popolo non fosse una unità politica organica ma contenesse, del tutto legittimamente, una pluralità di interessi e passioni.
Era inteso che il popolo democratico (bianco e maschile) fosse egualitario ma che, si diceva, avesse dentro di sé i semi, le cause, i pericoli, della sua corruzione. Era egualitario per diritti ma anche, idealmente, per potere e dignità. La nuova democrazia era un regime non solo politico ma anche sociale; implicava la fine delle vecchie deferenze, il trionfo del common man, anzi del self-made man, cioè del cittadino che è orgoglioso di se stesso, del suo lavoro (anche manuale) e del suo contributo personale alla comunità, non dello status e dei privilegi che gli vengono dalla nascita.
Una parte significativa della nuova cultura democratica era in consonanza con la tradizione repubblicana di origine rivoluzionaria, della rivoluzione americana del Settecento e di quella inglese del Seicento, che vedeva la piccola proprietà equamente distribuita e il mestiere come fondamenti di indipendenza individuale e di eguaglianza, e la repubblica come fondata sulla valorizzazione del lavoro di tutti. Tutti i cittadini repubblicani, si diceva, hanno diritto ai pieni frutti del loro lavoro.
In questa cultura, la concentrazione di molta ricchezza in poche mani era vista come uno strumento diabolico per creare una nuova aristocrazia, una aristocrazia del denaro, e quindi come una minaccia alla stessa repubblica. Agli occhi di molti americani, questa minaccia sembrò concretizzarsi nei processi di accumulazione che trasformarono l’economia capitalistica del paese nel corso dell’Ottocento, e in particolare nei frenetici decenni di fine secolo.
Negli anni trenta, il senatore Thomas Hart Benton sentenziò: “Ci sono solo due partiti, non ce ne sono mai stati altro che due, fondati sulla questione cruciale, se governerà il popolo o la proprietà”. Due generazioni dopo, non fu difficile accettare l’idea che una élite ristretta di grandi proprietari ricchissimi si fosse scissa definitivamente dal popolo, lo tradisse, non ne facesse più parte, facesse partito a sé.
Cosa doveva fare allora (il resto de) “il popolo”?