È noto a tutti come la raccolta di pomodori in Italia sia diventata un’attività per gran parte irregolare, gestita da forme di caporalato che rasentano lo schiavismo. Il “lavoro” più semplice da trovare che consente a migliaia di immigrati, di cui, molti clandestini, di tirare avanti. Spesso cerco di immaginare qual era il loro sogno quando erano sul barcone, prima di arrivare qui, cosa gli dava la forza per intraprendere quel viaggio. Copertoni che diventano materassi, nessun pasto, o condizione igienica garantiti in ghetti che molte volte sono presi di mira con atti di violenza e razzismo. In piedi all’alba per sperare di essere tra i “fortunati” che saranno reclutati alla raccolta per riuscire a guadagnare 20 euro: Due euro l’ora per una giornata lavorativa media di 10 ore, trascorse sotto il sole con la schiena piegata e sorsi di acqua contati. Un guadagno neanche netto, in quanto da quei soldi, in genere, vengono detratte le spese per il trasporto che quasi sempre avviene su camion improvvisati, dove vengono ammassati in troppi, oltre il limite consentito e che spesso si ribaltano, creando incidenti mortali. Camion che, tra l’altro, servono alla criminalità organizzata anche per il trasporto clandestino di armi e droghe.
Non dimentichiamoci, infatti, chi c’è dietro tutto questo: le organizzazioni malavitose, nel sud Italia (e non solo), hanno il controllo dei mercati generali e quindi per poter piazzare un bancale, l’agricoltore deve pagare il pizzo. Quasi ragionevolmente, quest’ultimo, il suddetto “costo”, lo detrarrà dalla forza lavoro, anch’essa gestita, egregiamente, dalle stesse organizzazioni di cui sopra che proseguono a far guadagno grazie al sangue degli immigrati che reclutano e che sfruttano rasentando lo schiavismo. Negli ultimi dieci anni, sono morti per la fatica e gli stenti, in migliaia, per lo più clandestini, o irregolari, costretti ad accettare di lavorare senza un contratto e a condizioni pietose. Sembra assurdo, ma tra questi esseri umani, molti sono anche ricorsi al suicidio, pur di giungere ad una via di uscita. Tutti sogni brutalmente infranti.
Purtroppo, il problema cambia poco anche nella grande distribuzione, dove vigono le aste dei Grandi Acquirenti di Prodotto (GDO) per fissare il prezzo del pomodoro. Queste aste, per lo più telematiche, vengono fatte tra aprile e maggio, quando il pomodoro ancora non si raccoglie nei campi, quindi senza guardare alla qualità del prodotto, ma solo alla quantità. Prezzi che cambiano tra nord e sud, in quanto, al settentrione la raccolta è per lo più meccanizzata, per cui, il prezzo tende ad essere leggermente più basso. Tramite questo meccanismo, gli industriali sono costretti a vendere sottocosto per accaparrarsi la commessa, costringendo, ancora una volta, gli imprenditori agricoli a tagliare le spese e a ricorrere allo sfruttamento disumano della forza lavoro e alla non garanzia della qualità. Praticamente, la distruzione di un’eccellenza che inizia ad avere il gusto amaro del profitto di pochi.
In un modo o nell’altro, a pagare i costi più alti saranno sempre loro, quelli che se arrivano a sbarcare sulle nostre coste, senza morire prima, è perché hanno un sogno di libertà e di giustizia, ma che saranno costretti a dimenticare, una volta messo piede a terra. A volte, viene spontaneo chiedermi qual è il valore di una vita del genere: nasci in un paese dove povertà, guerre, regimi totalitari opprimono la tua esistenza, ma pur trovando la forza e i mezzi per partire e provare a rifarti una vita, su questa nuova strada, ti ritrovi ad essere ancora una volta oppresso. La risposta che mi do, più per conforto che per una reale fede in essa, è che queste persone, inconsapevolmente, attraverso il loro sacrificio, spargono briciole di compassione in un mondo di indifferenti, rendendolo migliore. Dunque, una vera e propria missione.
Fortunatamente, però, a volte accade che il senso di queste vite sia più tangibile. È il caso di Yvan Sagnet, camerunense che nel 2008 arriva in Italia, non su un barcone, ma su un aereo, in quanto vincitore di una borsa di studio in Ingegneria al Politecnico di Torino. Alla fine del suo corso di studi, d’estate, tuttavia, si ritrova in Puglia a raccogliere pomodori anche lui. È qui che conosce il mondo del caporalato ed è da qui che inizia la sua battaglia contro lo sfruttamento, diventando attivista di uno sciopero prolungato che ha portato all’introduzione di questo tipo di reato e al primo processo in Europa sulla riduzione in schiavitù, con condanna di 12 persone tra imprenditori e caporali. Non si è fermato lui e oltre a scrivere vari libri sul fenomeno dei migranti, è tra i fondatori di un’associazione internazionale, la No Cap, che dal 2011 si occupa di difendere i diritti umani e sociali, oltre che degli animali e della natura. Con essa ha realizzato un bollino etico e la prima filiera certificata con cui il pomodoro viene valutato secondo sei parametri che vanno dai contratti di lavoro al rispetto dell’ambiente. Con Yvan Sagnet e anche altri prima di lui, il risveglio delle coscienze giunge alla portata di tutti. Adesso, non saremo più in pochi ad immaginare cosa c’è dietro il prezzo basso di una bottiglia di salsa di pomodoro. Fortunatamente, grazie anche ad attivisti e attiviste come Diletta Bellotti, o altre Associazioni, da Slow Food, a Libera Terra, anche i grandi marchi stanno iniziando un processo di risanamento e di trasparenza della filiera che diventerà imprescindibile per il consumatore attento, indipendentemente dagli espedienti che i legislatori trovano per raggirare i controlli. Alla fine, se noi utenti finali, almeno noi, non giriamo la faccia dall’altra parte, anche quando facciamo la spesa, pure i distributori, gli imprenditori agricoli e lo Stato, ossia, i responsabili di questo meccanismo impietoso, dovranno adeguarsi. Soltanto in questo modo, il pomodoro può tornare ad essere una delle nostre eccellenze territoriali e quel sogno che nasce da lontano, portato sulle onde del mare, non sarà più infranto.