Come veniva insegnata la lingua italiana nella scuola fascista? Approfondiamo la politica scolastica del fascismo in Italia e all’estero.
A Roma, il 19 e il 20 ottobre 2022, si è tenuto un importante convegno di studi intitolato “Il fascismo, i dialetti, l’italiano“, promosso dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in collaborazione con il Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli e l’Istituto Nazionale di Studi Romani. Noi di Ultima Voce, abbiamo partecipato e vogliamo parlarvi di uno dei temi cardine del convegno: la politica scolastica del fascismo. Analizzeremo la lingua adottata nelle scuole italiane durante il fascismo, il ruolo della ‘prosa fascista’ nei manuali scolastici e il rapporto della lingua con i dialetti regionali.
La politica scolastica del fascismo: pensierini per il Duce
Marco di Giacomo, dell’Università di Roma Tor Vergata, nel suo intervento intitolato Il fascismo nella scuola, espone alcuni concetti ricorrenti nei temi studenteschi durante il Ventennio. I temi affrontati in classe sono strettamente legati all’ideologia fascista. I bambini vengono invitati a scrivere pensieri sul Duce, sui sentimenti di orgoglio e patriottismo dei “piccoli italiani“, sul razzismo coloniale e sul culto della guerra, concepita come completamento della redenzione nazionale.
Dall’associazione Quaderni Aperti, che si occupa di digitalizzare quaderni provenienti da ogni parte d’Italia dalla fine del 1800 all’inizio degli anni 2000, pervengono delle fonti storiche di grandissima importanza. I quaderni costituivano un mezzo fondamentale per diffondere, in maniera efficiente e immediata, messaggi propagandistici.
L’immagine dell’Italia e dell’italiano all’estero durante il fascismo
L’indottrinamento non avviene però solo a casa propria. Laura Ricci, docente dell’Università degli Studi di Siena, ha analizzato l’immagine dell’italiano nel mondo durante il fascismo. Nella letteratura scolastica l’immagine dell’emigrato cede il posto ad una nuova figura, quella del “trasmigratore” dall’innato spirito esplorativo. Il primo a fornire il modello di questa retorica è Mussolini stesso, nel Primo congresso dei fasci all’estero, il 31 ottobre del 1925. Mussolini parla dell’emigrazione come strumento favorevole all’espansione italiana nel mondo. Quindi emigrare nel fascismo rappresenta un’opportunità di affermazione all’estero. L’idea dell’emigrazione come colonizzazione verrà ampiamente ripresa anche dai letterati, primo tra tutti Gabriele D’Annunzio.
All’estero la politica scolastica del fascismo opera attraverso azioni concrete di propaganda. Innanzitutto, nel 1926, vengono fondati gli istituti italiani di cultura nel mondo e vengono distribuiti testi di propaganda nei quali si dipinge il popolo italiano come portatore di civiltà. Il tutto è volto ad eliminare qualsiasi immagine di miseria e povertà. L’italiano deve apparire come l’individuo più onesto, il migliore. Tra questi testi, citiamo ad esempio Italiani per il mondo di Claudio Arena del 1927, dove si legge che lo spirito dell’italiano è: “ben diverso dell’istinto errante della razza ebraica o del popolo tzigano, l’Italiano ha nel sangue l’istinto fondatore e colonizzatore”.
La scuola fascista all’estero
Nella manualistica scolastica non cambia molto e la retorica patriottica viene particolarmente evidenziata. Tra le armi più forti della politica scolastica del fascismo c’è la lingua italiana: un mezzo potente da valorizzare. Si leggono in questi testi frasi ad effetto che incoraggiano le nuove generazioni nello studio dell’italiano. Le monografie per le scuole italiane all’estero provenivano da case editrici vicine al regime ed erano per lo più letture storiche e religiose, oltre a grammatiche e manuali di cultura militare.
Molto interessante è il testo Grammatica italiana illustrata per le scuole italiane all’estero di Gironimi, dove è totalmente assente una sensibilità verso una didattica per la lingua straniera. Lo stampo è fortemente tradizionale e nulla è lasciato al caso. Gli esercizi di sillabazione riportano infatti vocaboli come “combattere”, “credere”, “obbedire” o frasi come “Il Duce fu acclamato dalla folla”.
A scuola di dialetto
Il rapporto tra dialetto e fascismo non è stato mai semplice o uniforme. Per la preparazione dei programmi della scuola primaria, Gentile si era rivolto al pedagogista Giuseppe Lombardo Radice. I programmi di Radice sono importanti perché testimoniano come il fascismo non abbia subito mostrato in maniera evidente una dialettofobia. Al contrario, come spiega Di Giacomo nel suo intervento, hanno accreditato un ruolo strumentale e di rilievo al dialetto. In una prima fase, lo studio delle culture regionali ottenne pienamente una legittimazione istituzionale volta ad un’educazione nazionale.
Tra gli esempi forniti dallo studioso compaiono i celebri almanacchi regionali, ovvero piccole pubblicazioni da affiancare ai libri di lettura degli alunni, che contenevano informazioni riguardanti geografia, vita politica, meteorologia e sapienza popolare di una specifica regione italiana. Gli almanacchi, se ne contano ben 148, invasero le aule delle scuole italiane e avvicinarono la scuola anche alle famiglie. Oltre a questi almanacchi, i programmi di Radice, previdero 105 eserciziari di traduzione dal dialetto. Questi erano strutturati con difficoltà crescente: una prima parte era sempre affiancata da una traduzione a fronte, una seconda invece spingeva l’allievo a tradurre autonomamente il testo.
Dialettismi: errori o patrimonio linguistico?
Nonostante il dialetto fosse stato abolito a scuola, non scomparve subito del tutto. Alcuni dialettismi rimasero nelle menti degli alunni. Analizzando alcuni elaborati studenteschi provenienti dalle scuole elementari abruzzesi tra gli anni 1935-1937, oggi presenti nell’archivio storico della biblioteca di Tor Vergata, si riscontrano diversi aspetti interessanti.
In un frammento del 1937, ad esempio, abbiamo un dettato che tratta il tema della natura. L’allieva, erroneamente, trascrive la parola “gendile“, piuttosto che la parola “gentile”. Ma questo è significativo perché lascia intendere che la bambina fosse stata influenzata dalla pronuncia dialettale di quella parola con dentale sonora. In altri elaborati, compaiono ulteriori errori come la parola “riuscita“, al posto di “uscita”, o il “che” polivalente nella frase “ho visto il grano che lo stavano a mietere”, tutti tratti provenienti dal dialetto abruzzese.
Passando in rassegna alcune produzioni della classe quinta di Atri, negli stessi anni, si notano altri dialettismi. Questa volta però, l’aspetto interessante è dovuto al fatto che sono compiti firmati dalla docente. La maestra corregge alcuni errori, ma ne lascia altri. Questo ci permette di capire come alcune espressioni che oggi sono considerate errate e dialettali, venivano ancora ampiamente utilizzate e accettate in epoca fascista. Non si tratta solo di espressioni dialettali, leggiamo: “un’incendio” e “un’altro” scritti con l’apostrofo, l’utilizzo del doppio condizionale in frasi come “se io sarei dovuta andare, non ci sarei andata”, il raddoppiamento in “affezzionatissima”, l’utilizzo regionale di “teneva” al posto di “aveva”, e così via.
Inoltre, molte sono le opere dialettali che celebrano il fascismo. Andrea Giampietro (Deputazione abruzzese di Storia Patria) cita i numerosi componimenti che riguardano la festa della maggiolata. Temi come questo rientravano pienamente nell’ambito dello sforzo propagandistico che il governo attuava verso nell’ esaltazione della vita contadina e della produzione agricola. Nel1931, ad Ortona, viene presentata la Ninna nanna fascista, scritta in dialetto. Nel 1929, nasce persino la Rivista italiana di Letteratura dialettale ,con lo scopo di studiare la produzione letteraria regionale.