Per la prima volta dopo decenni, il governo di Londra è in difficoltà. Il capro espiatorio è proprio Boris Johnson.
Il sistema politico britannico è sempre stato tra i più complessi e funzionali d’Europa. Composto da parlamentarismo, monarchia e democrazia, il Sistema Westminster , per decenni, ha donato al paese una certa stabilita economico-sociale, particolarmente invidiabile. Tuttavia, attualmente, la politica inglese sembra essere entrata in crisi.
Il primo ministro, Boris Johnson, leader del partito conservatore e unionista (i Tories), tra Brexit e Covid-19, non sa più dove sbattere la testa. A complicare ulteriormente la situazione, s’aggiunge anche la spinta indipendentista della Scozia, che chiede a gran voce un nuovo Referendum.
Per la prima volta da decenni, Londra vacilla. Il primo ministro è stretto in una morsa. Come gestire una situazione così complessa, quando perfino i giornali di centro-destra, come il Times, danno l’immagine di un premier <<sovraccaricato, sottopagato e con la tristezza scritta in faccia>> ?!
Politica inglese, problema n. 1: il Covid-19
E’ un dato di fatto che il governo inglese abbia pericolosamente sottovalutato l’impatto del virus. La primissima gestione della pandemia è stata un disastro e se Johnson non fosse stato contagiato, probabilmente le misure di sicurezza avrebbero tardato ulteriormente ad arrivare. Poi, a metà marzo 2020, sulla scia dell’Italia, il premier opta per misure particolarmente restrittive.
Attualmente, l’Inghilterra si trova ad affrontare la seconda ondata della pandemia, che il premier intende gestire con un sistema “a tre livelli” di allerta: Very High, High e Medium. Tuttavia, il consenso a questa modalità d’intervento scarseggia.
Tra coloro che chiedono un lockdown generalizzato e coloro, come il sindaco di Manchester, che non intendono accettare misure restrittive localizzate (che potrebbero incidere negativamente sull’economia), la situazione sta capitolando.
Il Covid-19 ha messo in crisi l’intero sistema politico-economico mondiale. I premier di tutti gli stati Europei sono stati costretti a varare riforme e decreti per niente popolari, volti, però, alla salvaguardia della popolazione. La negligenza del premier inglese, tuttavia, ora è uno scotto da pagare: Boris ha perso la fiducia di molti elettori e degli stessi conservatori.
Politica inglese, problema 2: la Brexit
L’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea si avvicina. Il termine ultimo è il 31 dicembre 2020. Eppure, la possibilità di trovare accordi economici adeguati è ancora un miraggio. Era stato proprio Boris Johnson a volere (e ottenere) la Brexit, ed è sempre Johnson che ha minacciato una <<Hard Brexit>>.
Gli accordi dovrebbero essere raggiunti entro un mese e mezzo, ma l’attuale andamento delle trattative è piuttosto lento. Secondo Boris si potrebbe tranquillamente lasciare l’UE con un <<No Deal>>, senza accordo alcuno. Tuttavia, con questi presupposti, ritornerebbero dazi e dogane e ne risentirebbe sia l’economia dell’Inghilterra che dei paesi dell’UE.
Intanto, le borse europee peggiorano e il malcontento della popolazione inglese aumenta. Molti inglesi che hanno votato per il “leave”, adesso non sembrano più tanto convinti della scelta. Infatti, secondo il sito di sondaggi YouGov, il 54% della popolazione inglese è scontenta dell’andamento dei negoziati.
Quindi, nonostante il braccio di ferro, Boris è costretto a trovare un accordo e, a quanto pare, venerdì 23/10/2020 ci saranno nuovi incontri con Bruxelles.
Politica inglese, problema n.3: l’indipendenza della Scozia
Sono secoli che la Scozia spinge per l’indipendenza da Londra. L’ultimo referendum era stato approvato nel 2014, dall’ex premier Cameron, convinto che gli scissionisti avrebbero perso. Aveva ragione.
Eppure, l’azione combinata della pandemia e della Brexit, sembrano aver causato un drastico cambio di rotta. E’ indubbio che la Scozia abbia gestito molto meglio la pandemia rispetto al governo di Londra. Così facendo ha dimostrato di non essere debole e isolata, come gli inglesi sono abituati a credere. Anzi, il Covid-19 ha dimostrato una nuova centralità del governo d’Edimburgo, prima chiamato a legiferare solo su temi secondari.
La premier (e indipendentista) Nicola Sturgeon, infatti, ha raggiunto un picco di popolarità senza precedenti. Secondo i sondaggi attuali, un Referendum per l’indipendenza darebbe risultati diversi rispetto al 2014. Attualmente, nemmeno le aziende britanniche dimostrano di essere spaventate da una possibile scissione. Ciò testimonia che gli unionisti inglesi stanno perdendo polso.
La Scozia non era nemmeno intenzionata a lasciare l’UE. Ha subito passivamente la scelta di Londra. Gli scozzesi, infatti, percepiscono l’Unione Europea come una garanzia sussidiaria al governo centrale, nel quale stanno progressivamente perdendo fiducia. Johnson, tuttavia, non è per nulla intenzionato a concedere un nuovo referendum. Il suo roccioso nazionalismo resta saldo, ma la Sturgeon non molla. Vuole ottenere a tutti i costi l’indipendenza e accusa i Tories di essere intimoriti da una probabile vittorie degli scissionisti.
A ragion veduta, il governo di Londra è attaccato da più fronti. Brexit, Covid-19 e spinte indipendentiste, stanno facendo vacillare una delle istituzioni più solide d’Europa. Se la situazione dovesse peggiorare, la prima testa a cadere sarebbe proprio quella di Boris Johnson. A quel punto, il governo passerebbe in mano ai Wings.
Se le cause scatenanti di tale crisi politica sono state le scelte del primo ministro, un cambio di rotta potrebbe giovare. La popolazione inglese è piuttosto scontenta della situazione attuale. Il consenso a Johnson precipita, gli unionisti s’indeboliscono e la sterlina cala. Non far parte dell’Unione Europea può rappresentare un punto di forza, come di forte debolezza.
L’attenzione internazionale è puntata sull’Inghilterra. S’attende con ansia l’evoluzione degli eventi.
Antonia Galise