Conosciamo Plinio il Vecchio come autore della Naturalis Historia, monumentale e curiosa enciclopedia del sapere antico il cui valore scientifico è oggi – giustamente – dubbio. Tra le pagine di quest’opera, tuttavia, il suo autore potrebbe averci lasciato un insegnamento di carattere diverso. Un sapere preziosissimo ancora oggi.
Gaio Plinio Secondo, noto come Plinio il Vecchio, fu un uomo di scienza, un filosofo, un comandante militare e un governatore romano. Conosciuto come un prolifico scrittore dall’ingegno multiforme e dalla curiosità insaziabile, dei suoi scritti ci è pervenuta per intero soltanto un’opera. Cioè la Naturalis Historia, un’enciclopedia in 37 volumi che annovera quanto di geografia, antropologia, medicina, botanica, biologia, zoologia e mineralogia era allora conosciuto. Per realizzarla, Plinio consultò più di 2000 testi di oltre 500 autori, raccogliendo e vagliando inoltre leggende e dicerie durante viaggi e campagne militari.
Guardata quasi con venerazione durante il Medioevo, l’opera tuttavia non ha goduto della stessa fortuna in epoca contemporanea.
Pareri discordanti sulla Naturalis Historia
Durissimo è il giudizio di Alexandre Koyré sul valore scientifico del lavoro di Plinio il Vecchio. Lo storico della scienza, infatti, definisce senza mezzi termini la Naturalis Historia
un insieme di aneddoti e racconti da comare.
Più morbido è Italo Calvino, che nella sua prefazione all’opera tuttavia riconosce:
l’uso che di Plinio si è sempre fatto, credo, è quello della consultazione. Sia per conoscere cosa gli antichi sapevano o credevano di sapere su un dato argomento, sia per spigolare curiosità e stranezze.
Particolarmente interessante, infine, è il giudizio di Primo Levi. Che scrive:
Leggo con godimento e stupore sempre rinnovati molti libri vecchi e nuovi che parlano di animali, e mi pare di ricavarne un nutrimento vitale. Indipendentemente dal loro valore letterario o scientifico. Possono anche essere pieni di bugie, come il vecchio Plinio: non ha importanza, il loro valore sta nei suggerimenti che forniscono.
L’insegnamento di Plinio il Vecchio
La prospettiva di Levi sull’opera fa sospettare che l’insegnamento più prezioso in essa contenuto non attenga al sapere scientifico. In questa direzione interpretativa si è mosso, tra gli altri, il filosofo Michel Onfray.
Lo studioso francese, infatti, ha recentemente letto un passo della Naturalis Historia di particolare densità morale alla luce della vita e della morte di Plinio. Facendo emergere, oltre la figura del compilatore quasi maniacale nella sua voracità, un uomo dalla statura morale straordinaria. Il passo in questione, nella traduzione italiana, dice:
Essere dio, per un mortale, è aiutare un mortale: ecco la via verso l’eternità.
In che modo, dunque, Plinio il Vecchio seppe vivere e morire come un dio?
L’eruzione del Vesuvio
È il nipote adottivo di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, a raccontarlo in una lettera allo storico Publio Cornelio Tacito. Quest’ultimo aveva interrogato il ragazzo – scampato all’eruzione del 24 ottobre del 79 d.C. – riguardo la morte dello zio, avvenuta alle pendici del Vesuvio.
Ad avvicinare Plinio al vulcano era stata, inizialmente, la curiosità del naturalista. Desiderava, infatti, appurare di persona le cause dell’enorme colonna di fumo che saliva dalla montagna. Forse per questo Calvino, nella già citata prefazione, definiva Plinio il Vecchio un “protomartire della scienza sperimentale”.
Poi, però, era sopraggiunta la preoccupazione dell’amico e del comandante militare. Era venuto a sapere che lungo le spiagge della baia di Napoli molti compatrioti si trovavano in difficoltà. Tra questi anche la nobildonna Rectinia che, intrappolata sulla spiaggia della sua villa, aveva inviato a Plinio una richiesta di aiuto. In quanto comandante della flotta di Miseno, egli ritenne suo dovere intervenire.
Il coraggio di un filosofo stoico
S’affretta proprio là donde gli altri fuggono. Va dritto, il timone verso il pericolo, così privo di paura da dettare e descrivere tutti i fenomeni del flagello che si compiva davanti ai suoi occhi.
Così Plinio il Giovane descriveva a Tacito il comportamento dello zio.
Plinio il Vecchio raggiunse Stabia, dall’altra parte del Golfo, e, cercando di salvare con la flotta chi poteva, soccorse l’amico Pomponiano. Entrambi, però, rimasero bloccati con le loro navi da un vento contrario che rendeva impossibile allontanarsi e furono costretti a ritornare alla villa di Pomponiano. Qui, con la sua sicurezza, Plinio confortava i presenti. Si fece preparare un bagno, cenò allegramente senza lasciar trasparire un’ombra di paura. Quando andò a coricarsi, lo videro dormire come se non fosse la fine del mondo e, anche se la terra tremava, restarono saldi.
Morire, essendo vissuti, come un Dio
Plinio morì il giorno seguente, per la cenere e il fumo che avvelenavano l’aria nella sua trachea già fragile. Cedette, solo nel corpo, sulla stessa spiaggia dalla quale aveva osservato a lungo il mare impraticabile senza scomporsi.
La morte di Plinio, secondo Onfray, illumina la grandezza della sua vita. Nonché la sua coerenza con la filosofia che aveva scelto di incarnare, lo stoicismo. Vivere e morire come Dei, dunque, secondo l’esempio di Plinio il Vecchio significa questo:
non aggiungere miseria al mondo, accrescere il proprio sapere, amare gli amici, soccorrere il prossimo, prendersi cura di sé.
Saper vivere e saper morire si equivalgono allorché si sia diventati capaci di rispettare sempre questi doveri fondamentali verso sé stessi e verso gli altri. Vivere e morire come Dei è non lasciarsi cambiare da un mondo stravolto. Potrebbe essere questa la migliore lezione che Plinio il Vecchio ci ha lasciato in eredità.
Valeria Meazza