Di Carlo Barbieri
Leggo sul Corriere.it del caso che ha avvio nel 2012, quando a Roma l’amministrazione Alemanno era alla fine del mandato contrassegnato dalla Parentopoli che aveva puntato il dito sulle municipalizzate (più di 800 assunzioni “di favore”). L’AMA, l’azienda che gestisce i rifiuti, bandì una gara per l’acquisto di una bella quantità di scope necessarie agli scopamenti capitolini. La gara si chiuse ai primi del 2013 con l’aggiudicazione di tutto il fabbisogno a un ditta piemontese. Nessuno partecipò alla gara per le scope di vecchio tipo, di erica, messe a base d’asta a 2,70 euro ciascuna; la ditta in questione ottenne invece l’appalto sia per le scope in plastica (14.000 pezzi a più di 14 euro l’una) che per altri attrezzi.
Dopo qualche anno di scopate gli addetti ai lavori lamentano che il cambio dall’attrezzo “naturale” a quello di plastica è stato un disastro: l’aggeggio costa sei volte di più ma dura di meno perché si ovalizza. E i sindacati si chiedono se non sarebbe stato meglio provare le nuove scope prima di fare l’investimento. Sempre secondo il Corriere.it, fra i sindacati serpeggerebbe persino il dubbio che “la base d’asta per le scope d’erica fu troppo bassa, tale da non invogliare nessuno a concorrere”.
Io ovviamente non mi sono fatto una opinione, ma il caso, per il quale propongo il nome “Ammazza che ramazza” potrebbe forse spiegare perché Alemanno non riuscì a fare pulizia al Comune di Roma.
Aveva la ramazza di plastica.