Sembra quasi la trama di una pellicola hollywoodiana, quella dell’indagine rinominata Pizza Connection. D’altronde, la cinematografia americana, di nastri popolati da gangster con l’abito gessato e l’inflessione siciliana, abbonda. La vicenda giudiziaria che marciò, tra il 1979 e il 1984, sull’asse criminale Palermo – New York, venne effettivamente riportata sul grande schermo nel 1985 da Damiano Damiani. Il grande regista sul cui capo pesano titoli del calibro de La Piovra, diede alle sale il suo Pizza Connection nel 1985. Un cast di livello con Michele Placido al timone e la mafia da coprotagonista che, però, non riuscì a scalare l’olimpo dei cult. Forse perché il regista si appropriò un po’ indebitamente dell’headline giudiziaria, il cui riferimento, nel film, è davvero residuale.
Le esportazioni italiane fino al Pizza Connection
Si stima che fra il 1880 e il 1915 siano approdati negli Stati Uniti d’America circa quattro milioni di italiani che scelsero – o non ebbero altra scelta – di cercare fortuna verso le Americhe. La diaspora interessò soprattutto la popolazione meridionale, da sempre (e per sempre?) in una condizione di subalternanza rispetto al resto del Paese. Per quanto possa rivelarsi consolatoria la comunione dei patimenti, l’emigrazione dei popoli nati a sud del mondo è una condizione storica e ciclica. Agli inizi del 900 toccò agli italiani, soprattutto a quelli nati sotto la capitale.
Le popolazioni del Mezzogiorno, devastate dalla crisi agraria cominciata nel 1880 prima e dalla guerra poi, dai cataclismi naturali e svenate da un potere ancora feudale, non videro altra alternativa se non quella di inseguire il sogno americano. Insieme agli italiani, sulle navi grandi quanto i paesi che si lasciavano alle spalle, arrivarono in America anche le loro abitudini, i loro consumi, il loro folclore. Moda, cibo, arte, mestieri, moltissime espressioni della cultura statunitense vennero contaminate da sugo al pomodoro e da musiche popolari. Ben presto gli interetnici ed esuberanti distretti di New York si farcirono di pizza, spaghetti, vino rosso e mafia.
La mafia italiana inonda l’altra sponda dell’Occidente
Spietata, vendicativa, arrogante. Così venne definita la mafia italiana trapiantata a New York a cavallo tra 800 e 900. Le affollatissime strade di quella che da lì a pochissimo verrà definita Grande Mela, già nel 1905 contavano la presenza di 8.200 italiani. Con questi, soprattutto di provenienza siciliana, giunsero “nel Continente” anche le attività illecite del racket, della protezione, del reclutamento di mano d’opera e del traffico di prodotti commerciali di vario genere. L’epoca d’oro degli illeciti legati all’organizzazione criminale è stata senza dubbio quella del proibizionismo, durante la quale le cosce mafiose accumularono ricchezza e, soprattutto, potere.
Prima di diventare “Our Thing”, letteralmente Cosa Nostra – così rinominata dal boss italo-americano Lucky Luciano per avvalorare la natura privata degli affari dell’organizzazione – la mafia si riconosceva nella struttura di Mano Nera. A Manu Niura, alla fine degli anni ’20, possedeva il controllo del 60% dei quartieri di New York e il 70% di quelli di Chicago, suoi principali canali di traffico.
Sembra farina ma non è
In pochissimo tempo l’Onorata Società scalò la vetta della criminalità organizzata italo-americana, mettendo le mani letteralmente in pasta nel malaffare. Uno dei casi più rocamboleschi e laboriosi fu senza dubbio quello che i media ribattezzarono “The Pizza connection”. Esploso negli anni ’80, il legame tra i due principali beni di importazione italiana, raggiunse la sua acme durante il processo che porta il nome del cibo più amato al mondo: la pizza. L’operazione, in effetti, coinvolse una dozzina di pizzerie del nord America, utilizzate come seggio clandestino per lo spaccio di eroina.
Usando le attività commerciali come copertura, gli uomini d’onore siciliani riuscirono, tra il 1975 e il 1984, a importare negli Stati Uniti circa 750 chili di eroina (per un valore, al tempo, di 1.4 miliardi di euro). Le pizzerie erano gestite, dalla più “siciliana” tra le famiglie mafiose, quella dei Bonanno. Pentagono i cui vertici, oltre ai Bonanno, erano presieduti dai Genovese, dai Lucchese, dai Gambino e dai Colombo. Alla vasta e macchinosa indagine, contributi chiave provennero anche della magistratura siciliana, nella persona, all’epoca, di Giovanni Falcone.
Le intercettazioni svoltano l’inchiesta
Cruciali furono le intercettazioni condotte dagli agenti federali, seppure non ancora ufficialmente legali. Dalle informazioni raccolte, le stesse autorità rimasero sbalordite da rigore e minuzia della Cupola. Scoprirono una organizzazione verticistica e strutturata, fatta di boss, capi, consiglieri e sgarristi. Vennero piazzate decine di cimici, ma la vera svolta fu l’istituzione della norma, studiata appositamente per stroncare il crimine organizzato: la legge Rico. Entrato in vigore nel 1970, il provvedimento, in sostanza, poneva fuori legge le organizzazioni coinvolte in attività criminali illegali, colpendole al cuore dei loro traffici.
Secondo la racketeer influenced and corruption organization act, è la stessa appartenenza all’organizzazione criminale a determinare il reato, anche se questi non è stato fisicamente commesso dal reo. La prima famiglia ad essere posta sotto controllo furono i Bonanno, a seguito dell’uccisione del capofamiglia Galante, nel ’79. Omicidio imputato a due siciliani emigrati a New York. Erano questi i soggetti più pericolosi. Nessuna famiglia, nessuna fedina penale né un passato da scandagliare. Tutti, icasticamente proprietari di paninoteche, pizzerie e panetterie.
Il coinvolgimento di Badalamenti nel circuito di Pizza Connection
Al sorgere del decennio caratterizzato da disordini e stravizi, l’inchiesta sui traffici della mafia venne affidata agli agenti federali Carmine Russo e Charley Rooney. Già nel 1981, le autorità erano bel consapevoli dell’entità del traffico di droga pedinato. Una delle telefonate, chiaramente intercettate e registrate, epocali nell’indagine, fu quella ai cui fili rispondevano i nomi di Badalamenti, ex capo di tutti i capi di Palermo, e suo nipote Pietro Alfano. Zu Tanu, dopo un soggiorno a New York, era tornato in Sicilia per regolare conti personali, lasciando la gestione oltreoceano al nipote, proprietario di una pizzeria nell’Illinois.
In una telefonata intercettata l’8 febbraio dello stesso anno, Badalamenti parlò chiaro, questa volta senza codici – per quanto trasparente potesse essere una conversazione sostenuta in siciliano stretto. “22 lattine arrivano da Forte Loderdale. È buona, dice che c’è solo il 10 % di acrilico” Tanto bastò per fermare il boss e suo nipote a Madrid, l’8 aprile del 1984, grazie a un massiccio coinvolgimento delle forze armate spagnole.
Pizza connection è stato il secondo processo più lungo nella storia giudiziaria degli USA
Quello di Pizza connection è stato un processo memorabile e lunghissimo. Durato quasi due anni, fu uno dei primi a stabilire una chiara, incontestabile connessione tra la mafia siciliana e le famiglie criminali stanziate a New York. Il giorno successivo all’arresto du Zu Tanu, seguirono numerose catture. Al termine del procedimento durato ben 17 mesi, si scoprì una compravendita di quasi due tonnellate di eroina pura, smistata attraverso le pizzerie dislocate tra i vari quartieri americani.
L’epilogo portò alla condanna di Badalamenti, Catalano, Ganci e altri 14 criminali. La durata e la laboriosità del processo fecero guadagnare all’incartamento giudiziario il titolo di processo, con susseguenti condanne, più lungo nella storia d’America. Titolo usurpato solo nel 1989 dal caso McMartin, durato 6 anni.