Predecessori di Romeo e Giulietta, Piramo e Tisbe sono protagonisti di un mito antico ugualmente straziante. Resa immortale da Ovidio nelle Metamorfosi, la loro vicenda ha avuto una fortuna letteraria sconfinata. Perché, pur prendendoci il cuore a pugnalate, questo mito ci risulta ancora oggi così affascinante?
Lei ama lui, lui ama lei, ma le due famiglie acerrime nemiche si oppongono: cercando la libertà di amarsi, i due giovani troveranno la morte. Questa trama suona fin troppo familiare: è di certo quella – mi direte senza esitare – di Romeo e Giulietta! E invece no, sbagliato, anche se non del tutto. Quello che ho appena riassunto, infatti, è uno dei più strazianti miti dell’antichità, la storia di Piramo e Tisbe. Una vicenda che, sopravvivendo nei secoli, ha effettivamente ispirato William Shakespeare nella scrittura della sua tragedia più famosa. Dove si svolge e cosa racconta questo antichissimo mito?
Piramo e Tisbe: come una sola notte portò alla fine due amanti
Tra Piramo e Tisbe, nella versione del mito raccontata dal poeta Ovidio ne Le Metamorfosi (I secolo d.C.), c’è un muro. Un muro fisico, concreto, materiale: quello che separa le due abitazioni dei giovani innamorati. Che un giorno, per caso, hanno scoperto una fessura e da allora quotidianamente si parlano e si guardano attraverso di essa. Senza potersi mai sfiorare che col desiderio. E un muro impalpabile, ma più duro e crudele di quello che le due case condividono: la feroce inimicizia tra i due padri. Piramo e Tisbe sono bellissimi, ugualmente nobili e colti, dal cuore buono: le nozze sarebbero il coronamento perfetto del loro sentimento. Gli amici delle due famiglie non si danno pace e provano a intercedere. Perché non concedere ai due ragazzi, che si conoscono fin da bambini e hanno imparato a volersi bene giocando insieme, la giusta felicità?
Niente da fare: poiché i genitori si oppongono, ai due amanti non resta che fuggire, provando a unirsi in matrimonio in un altro regno. Decidono di lasciare le proprie case di notte, muovendosi separatamente per non destare sospetti: si danno appuntamento alla fonte davanti al sepolcro del re Nino. Tisbe, coi suoi pochi averi, giunge per prima. Purtroppo, però, quasi nello stesso momento giunge un leone, assetato dopo aver sbranato un bue. Non notata dalla belva, Tisbe riesce a nascondersi in una grotta. Dimentica, però, il fagotto e un velo che indossava: quando il leone li fiuta, li trova e ne fa scempio, macchiandoli del sangue che aveva addosso. Così, arrivando e riconoscendo il velo e gli averi di Tisbe, Piramo sospetta il peggio e, folle di dolore, si getta sulla propria spada. Quando Tisbe lo raggiunge, la sua voce lo trattiene per un attimo dalla soglia della morte, ma poi subito spira. E la giovane, rendendosi conto di non poter vivere senza il suo amore, si dà la morte nello stesso modo.
Di Piramo e Tisbe, secondo Ovidio, alla fine tanto gli uomini quanto gli Dei hanno pietà.
Gli uomini perché un viandante, accorso al pianto di Tisbe e rimasto a confortarla mentre spirava, raccogliendone la storia, rinarra a tutti quanti la vicenda. E questa si diffonde, non solo per la città ma valicando i confini dei regni, suscitando commozione ovunque la si ascolti. Tanto che per i due giovani viene costruito un sepolcro dove possano almeno riposare insieme, finalmente uniti pur nella morte. E gli Dei perché, mossi a pietà, tingono del colore del loro sangue i frutti, prima candidi, dell’albero sotto il quale hanno trovato la morte. In modo che chiunque mangi le more, nel loro sapore dolcemente asprigno e nel colore rosso scuro possa ritrovare traccia di quell’amore infelice ma smisurato.
Piramo e Tisbe: un mito, cento variazioni
In verità, la versione originaria del mito di Piramo e Tisbe – risalente al periodo ellenistico – era leggermente diversa. I due giovani amanti in essa finivano sì, suicidi, ma per la vergogna. Tisbe, infatti, rimasta incinta di Piramo, si uccideva per sfuggire alle ire del proprio padre e all’onta. E il giovane, non sopportando di averla perduta, si dava la morte con la spada. A decretare la maggior fortuna della versione narrata sopra è stata senz’altro la straordinaria abilità poetica di Ovidio. Che, tuttavia, non ha impedito a questa storia di subire successive trasformazioni.
La fortuna letteraria e artistica di questo mito, infatti, è stata enorme. Per farsene un’idea, basta consultare la pagina relativa su Wikipedia, ove si contano una novantina di rielaborazioni tra arie, ballate, opere teatrali, romanzi e novelle. Nonché numerose citazioni in opere capitali come il Purgatorio dantesco, il Don Chisciotte di Cervantes e il Cyrano de Bergerac di Rostand.
Né finisce, come si potrebbe credere, sempre in tragedia. Infatti, se con Shakespeare – e, prima di lui, con Chaucer – il mito raggiunge vette tragiche, nel Decameron di Boccaccio si evolve in racconto salace. Nella quinta novella della settima giornata, infatti, per bocca di Fiammetta Tisbe è trasformata nella bellissima moglie di un mercante geloso di lei a torto. Stanca di vivere spiata e reclusa, la donna trova il modo di farlo becco con un giovane che abita nella casa accanto. Non solo: riesce anche a fargli credere di essergli stata sempre fedele e che tale rimarrà a vita. E anche in questo caso, manco a dirlo, motore dell’inganno è, come nel mito di Piramo e Tisbe, un buco in un muro.
D’amore si muore, ma noi no: ecco perché questo mito, dopo millenni, ci colpisce dritti al cuore
Dire “io non posso vivere senza di te“, oggi, appare come una bestemmia. O, quantomeno, come un biglietto di sola andata per uno dei molti domini delle relazioni tossiche. Un amore sano, nella nostra epoca, è l’amore di due persone che sanno bastarsi, capaci di vivere ciascuna con l’altra, ma anche prescindendo da essa. A questo genere di amore, maturo, equilibrato ma forse fin troppo attento alla sicurezza, il mito di Piramo e Tisbe getta un guanto di sfida. “Sei in grado”, sembra chiedere a chi lo legge, “di amare a costo della vita?”. Ossia: “hai mai tenuto tanto a qualcuno da non poterti pensare senza di lui/lei?”. Si può rispondere che non ne vale la pena, che nessun amore dovrebbe richiedere un simile prezzo. Si può rispondere che un’idea del genere è da adolescenti, o da folli. Più che legittimo.
Qualunque sia la nostra risposta, però, non può essere neutrale. È un sì o un no che prorompe dalla testa o dal cuore, ma mai in tono piatto. Perché la domanda è di quelle che c’interpellano più profondamente. Chiamando in causa tutto ciò che sappiamo (o crediamo di sapere) sull’amore. E ricordandoci quanto, quando si tratta di amare, nonostante tutte le nostre esperienze siamo, in fondo, tutti sempre dei principianti.
Valeria Meazza