Pinocchio, nell’immaginario comune, è una delle più celebri e classiche favole per bambini. Per quale motivo, invece, il romanzo di Collodi è adatto a tutti ed è un classico di primo piano nella nostra letteratura? Ne riparliamo oggi, dopo esattamente 139 anni dalla pubblicazione del primo episodio della storia sul Giornale dei bambini, il 7 luglio 1881.
Ad una prima lettura d’infanzia, la storia di Pinocchio appare come quella di un monello che dice bugie, gettandosi in mille guai, fino ad arrivare a comprendere l’importanza di dire la verità e di rispettare le regole e gli adulti. Il romanzo, tuttavia, offre una interpretazione anche più profonda, per un pubblico più adulto.
Fin dal nome di Pinocchio, la sua storia ci appare come la storia di un ossimoro, di una contraddizione profonda.
Così Geppetto spiega per quale motivo vuol chiamare così il suo burattino Pinocchio:
Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.
Ma cosa vuol dire appartenere ad una dinastia di “ricchi elemosinieri?” Entriamo fin da subito in un gioco di ossimori e antifrasi, ironie e paradossi. Un gioco di trabocchetti, capovolgimenti, vie di fuga di cui Pinocchio è l’espressione più piena e il caso limite.
Pinocchio nasce per essere un giocattolo, ma giocattolo non è.
Così Geppetto spiega a Mastro Ciliegia, che gli darà il legno per fabbricarsi il burattino:
Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno; ma un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino.
Il programma che ha Geppetto su Pinocchio è quello di renderlo un burattino meraviglioso, da far esibire in giro per il mondo per guadagnarsi qualcosa da vivere. Tuttavia, questo progetto non si realizza. Il burattino, infatti, enuncia un proprio programma di vita molto diverso: “correre dietro alle farfalle”, “mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera il vagabondo”.
Se Geppetto non riesce a fare di Pinocchio un giocattolo, Pinocchio stesso non riesce ad estirpare dal proprio carattere quella destinazione originaria di giocattolo.
Quello che Pinocchio condivide con i balocchi è la loro antenatalità, cioè il loro “esserci già stati”. Pinocchio, nel teatrino di Mangiafuoco, incontra altri burattini. Questi lo riconoscono e lo acclamano come “fratellino” di Arlecchino e Pulcinella e delle altre marionette. Se non ci fosse stata una fase preesistente, come avrebbero potuto riconoscerlo? Pinocchio, quindi, esiste già. Come afferma Agamben ne Il Paese dei Balocchi (Einaudi 1978):
Il carattere essenziale del giocattolo è qualcosa di singolare, che può essere colto solo nella dimensione temporale di “una volta” e di un “ora non più”.
Eppure, Pinocchio non gioca mai. I giochi di cui si parla nella storia di Pinocchio sono giochi di metamorfosi, trasformazione, travestimento, occultamento della realtà. Nel gioco delle apparenze, il prezzo da pagare è molto alto, a volte si rischia la morte.
Il Gatto e la Volpe convincono Pinocchio a fargli duplicare i suoi soldi, cercano di derubarlo mascherandosi da ladri, riescono infine ad ingannarlo fingendosi loro amici. L’Omino di Burro, che attira i bambini nel Paese dei Balocchi facendoli salire sul suo carro, è lo stesso che poi li trasforma in asini.
Il gioco, nella storia di Pinocchio, non ha un rapporto con la vita, bensì con la morte. Non è mai gioco con, né contro l’altro. Mancano dunque due componenti essenziali del gioco: la competizione e l’agonismo. Manca, in sostanza, l’elemento costitutivo della socialità. È presente, invece, l’elemento distruttivo. Il gioco si configura come un giocarsi di, prendersi gioco di. E in questo gioco, ognuno è il potenziale zimbello dell’altro.
L’unico vero e grande gioco di Pinocchio è la corsa.
Per i bambini, correre è normale: lo fanno non sempre per fuggire, ma anche per gioia, esuberanza, imbarazzo, sfogo di energia. La corsa di Pinocchio, tuttavia, assume un significato ulteriore, che si inserisce sempre negli ossimori e nelle contraddizioni del personaggio e della sua storia. È una corsa tra due poli opposti dell’essere. Da un lato, la sua è una corsa che ha come motivo il divertimento, il gioco, la spensieratezza piena e vitale. Dall’altro, si configura come sregolatezza, abbandono all’ebbrezza e ricerca di vertigine.
È interessante la lettura che ne dà Bartezzaghi (2002):
(…) la lettura adulta di Pinocchio coglie bene questo aspetto dolorosamente spasmodico della sua ricerca inarrestata di divertimento, della voglia di uscire di sé e dallo smarrimento che si prova, e mette voglia di correre, far correre l’anima via dal corpo. Spasmo e vertigine, contraddizione e tensione, spinta vitale e trasgressione: sarà questo che continuiamo a chiedere a Pinocchio, quando ci proponiamo di interpretarlo, commentandolo, impersonarlo, citarlo?
La storia di Pinocchio non finisce quando il burattino diventa bambino, ma quando si carica sulle spalle il padre Geppetto.
Una scena toccante, quasi emulante quella eneadica di Enea e Anchise. Si tratta dell’ ultima incessante corsa di Pinocchio, che cerca di portare in salvo sé stesso e il padre nuotando verso la riva, una volta usciti dall’enorme pescecane. Il burattino, dopo aver vagato per anni ed aver deluso più volte la fiducia del padre, si fa carico del suo peso. Ha capito quanto ha sbagliato e si prende la responsabilità di salvare la vita a lui più cara.
Da lì in poi, capita ogni sorta di miracolo. Il tonno li trasporta fino a riva ormai stremati, il grillo li accoglie nella sua casa, la lumaca riesce a correre in soccorso alla Fatina portandole i soldi di Pinocchio. Sarà proprio lei a ricompensarlo rendendolo un bambino. “Com’ero buffo quand’ero burattino” arriva a dire Pinocchio, quando vede il suo vecchio corpo di burattino inanimato. Finalmente esiste un vero giocattolo.
La storia di Pinocchio è sì la storia di un burattino che diventa bambino vero. Ma è anche l’esito ultimo di una polarità insita in ognuno di noi, adulto o bambino: quella tra bene e male, tra saggezza e brivido, tra maturità ed incoscienza.
Come afferma Italo Calvino, questa storia ha avuto una fama enorme, è stata tradotta in tutto il mondo, portata sul grande schermo e nei teatri. Tuttavia, Pinocchio è sempre stato considerato un classico minore, mentre è necessario considerarlo uno tra i più grandi libri della letteratura italiana.
Secondo Calvino, infatti, è l’unico esempio di romanzo picaresco della nostra letteratura. Inoltre copre un’altra lacuna: quella del romanzo fantastico e “nero”. È poi “uno dei pochi libri di prosa che per la qualità della sua scrittura invita ad esser mandato a memoria“, ed è il primo romanzo italiano tutto scandito sul dialogo.
Sono stati avanzate molte interpretazioni su Pinocchio: da quelle cristologiche a quelle psicanalitiche. Tutte le affinità che si sono rilevate, secondo Calvino, dipendono dal fatto che:
La sola conclusione possibile è che l’immaginario d’una civiltà è composto d’un dato numero di figure che possono organizzarsi in un gran numero di modi ma non in altri, per cui una storia che funziona avrà sempre molti punti in comune con un’altra storia che funziona.
L’universalità della storia di Pinocchio ha fatto passare in secondo piano l’autore: Carlo Collodi.
Come prosegue Calvino:
Ma non è poi questa la condizione dei capolavori, o almeno di molti? di attraversare un autore come fosse un mero canale e strumento per imporre la propria autonomia o necessità indipendentemente da lui?
Così continuiamo a leggere la storia di Pinocchio, bambini e adulti, raccogliendone gli insegnamenti e facendoci attraversare dalle sue contraddizioni e dalla sua universalità.
Giulia Tommasi