Visibilità Queer: intervista all’attore e attivista Pietro Turano

Pietro Turano

Un dialogo con Pietro Turano e la vita in equilibrio tra recitazione e attivismo

Venerdì 15 gennaio abbiamo ospitato in diretta Instagram l’attore e attivista Pietro Turano. Il vicepresidente di Arcigay Roma è conosciuto al pubblico anche per aver vestito i panni di Filippo in Skam Italia.
Diviso tra la carriera da attore e gli impegni da attivista, Pietro Turano non smette di condividere le battaglie della comunità queer attraverso ogni progetto. Grazie alle sue riflessioni, è nato un dialogo approfondito in materia di recitazione e rappresentazione LGBTQ+. Ma anche di attivismo e futuro dei Pride.

Come ti sei avvicinato alla recitazione?

E’ una cosa che c’è sempre stata nella mia vita e nei miei desideri. Fino a poco tempo fa non era altro che un sogno ed ancora oggi lo vivo come un sogno, finalmente ad occhi aperti. Da piccolissimo facevo gli spettacolini a casa, radunavo la famiglia e facevo pagare un biglietto. Poi in maniera più seria, ho iniziato i primi corsi e laboratori negli anni delle medie e questa è una cosa che non tutti hanno la possibilità di sperimentare. Purtroppo i laboratori teatrali non sono in tutte le scuole anche se secondo me ce ne sarebbe una grande necessità.

Quanto sarebbe bello avere delle ore di recitazione anche alla scuola elementare, non significa solo imparare a recitare. L’aspetto interessante è che tu metti in discussione il tuo corpo, ti metti alla prova. Impari a gestire le emozioni, l’espressività, a respirare. E’ una cosa che fa bene a tutte le persone, come tante discipline di questo tipo. Studiare recitazione già dai primi anni della scuola secondo me sarebbe molto formativo per i ragazzi. Anche nel modo di relazionarsi fra loro, soprattutto nel mondo di oggi che è molto individualista. Imparare a relazionarsi all’altro ed ascoltare il linguaggio paraverbale è una bella cosa. Io ho avuto la fortuna di avvicinarmi così e ho detto “Wow! Voglio fare questo”.

Hai parlato di teatro, uno dei settori culturali più afflitti dalla pandemia, e hai detto una cosa giustissima. Ha un valore formativo ma anche di condivisione, sia per chi lo fa che per chi lo guarda.

Oggi sembra che non esista, se ne è parlato solo all’inizio quando si è detto che venivano chiusi e poi basta. Io avrei avuto dei lavori in teatro perché, al di là della carriera cinematografica, lavoro in teatro da sempre e non smetterò mai. Però purtroppo non ne sappiamo più nulla e questa è la grande botta della cultura. Per il cinema ci sono le piattaforme, i film escono online, è diverso. Ma per la cultura e la relazione con il pubblico, non si sa.

Negli ultimi anni è cresciuta la rappresentazione di personaggi LGBTQ+ nel mondo del cinema e delle serie tv. Di conseguenza è cresciuta anche l’attenzione verso chi li rappresenta. Molte volte ci si è chiesti quanto fosse giusto che un attore cis interpretasse un personaggio queer. Secondo alcuni, però, questo ragionamento relegherebbe gli attori queer ad interpretare solo personaggi queer. Tu come la pensi?

E’ chiaro che in un mondo perfetto, dove non esistono discriminazioni e pregiudizi, sarebbe bello vedere che chiunque può interpretare qualsiasi ruolo. Il bello del lavoro dell’attore, così come quello dello scrittore o dello sceneggiatore, è proprio quello di potersi mettere alla prova e toccare aspetti dell’umanità che effettivamente non fanno parte di noi. In un mondo perfetto non ci dovremmo neanche porre il problema. Però il problema c’è e non è tanto ideologico quanto lavorativo.

Tutte le persone hanno le stesse possibilità di accedere ad opportunità di lavoro in pari misura? Oppure ci sono delle persone che sulla base della propria identità o delle proprie condizioni naturali o di appartenenza incontrano degli ostacoli o delle discriminazioni?

Ci sono pochissimi attori o attrici gay, lesbiche, trans e non binary. Anzi, praticamente nessuno. Quindi abbiamo un parterre di professioniste e professionisti cis. Ovviamente, già si parte svantaggiati. Ci sono poi una serie di pregiudizi alimentati anche dal fatto che non ci siano persone dichiarate in quell’ambiente. E quindi le scelte ricadono più facilmente sulle altre persone perché sono di più ed è meno scomodo sceglierle. Per quanto possa essere bello che tutti interpretino tutti, finché c’è qualcuno che ha più difficoltà a lavorare allora bisogna avere un occhio di riguardo per quelle categorie e quantomeno prenderle in considerazione per quei ruoli che attingono alla loro identità.

Il punto non è che solo una persona trans può fare un ruolo trans perché è l’unica che può capire quella cosa. Il punto è che quell’attore o quell’attrice trans, fuori da quei ruoli, avrà più difficoltà a lavorare perché esistono dei pregiudizi. Allora, se neanche per quei ruoli vengono presi in considerazione, è come se l’industria dicesse loro che essendo fuori dallo standard non possono fare quel mestiere. Il tema è di lavoro, è una discriminazione sottile. Nessuno lo dice in faccia, però poi a conti fatti dobbiamo vedere chi lavora e chi no, chi fa più provini e chi meno.

Poi dobbiamo domandarci un’altra cosa. Quando diciamo che quel ruolo possono farlo solo determinate persone. Ci siamo domandati se quelle persone esistono? Ci sono attori e attrici trans? Se fino ad oggi non li abbiamo fatti lavorare, lo fanno davvero quel lavoro? Bisogna cambiare la cultura e far tornare le persone ad avvicinarsi a ruoli a cui hanno smesso di ambire perché non trovavano la loro collocazione,

Tutta questa ondata chiamata politically correct ha dei lati oscuri e pericolosi. Spesso si pensa di risolvere il problema con delle mosse superficiali senza cambiare in profondità. C’è un lavoro culturale molto profondo da fare e se viene fatto solo in superficie pagano sempre le stesse persone. Cioè chi è in minoranza. Bisogna rendersi consapevoli che c’è un problema di accesso alle opportunità di lavoro e modificare le differenze.

Poi effettivamente è vero che stanno aumentando le rappresentazioni. Perché, banalmente, oggi rispetto agli anni’80 le minoranze hanno più spazio per esprimersi nella vita reale. E quindi anche nelle writing room vogliono che anche lì ci siano più rappresentazioni. Però bisogna iniziare a far coincidere le rappresentazioni con i rappresentanti.

Nel mondo del cinema ma anche dello spettacolo in generale, c’è sempre di più la tendenza da parte di artisti, non solo queer ma anche cis, ad esprimere la propria sessualità in modo fluido e libero dallo schema maschile-femminile. Credi che questa libertà sia utile alla lotta contro i pregiudizi o pensi che in alcuni casi sia solo una mossa furba per seguire una tendenza?

Mi piace questa cosa ma ci sono degli aspetti che non mi piacciono affatto. E’ molto affascinante vedere che artisti e artiste facciano un lavoro di decostruzione dei ruoli di genere. Rompano alcuni schemi rispetto alla loro espressione artistica, nel modo in cui si vestono e truccano, nel modo in cui si esibiscono anche in contesti nazional-popolari. Quello che io critico è quando questo viene scambiato per qualcosa di queer a tutti i costi, di inerente alla comunità LGBTQ+ anche quando quelle persone non hanno nulla a che fare con la comunità. Il problema dei ruoli di genere è un problema di tutte le persone. Tutti noi dobbiamo fare i conti con le aspettative della società nei nostri confronti rispetto a ciò che pensano noi siamo.

Dal giorno uno iniziano a farti capire che nascere uomo significa determinate cose nel modo in cui devi vivere, ti devi esprimere, devi provare le emozioni o relazionarti. Chiunque abbia desiderio di rompere queste gabbie sta portando avanti un processo interessante da vedere. Ma solo perché questo storicamente è stato fatto perlopiù da persone queer, non significa che chiunque lo faccia sia un attivista queer o sia genderfluid. Quello che io trovo poco interessante è vedere che artisti anche cis vengono promossi automaticamente ad icone queer. Quando magari non sanno nemmeno di cosa si sta parlando.

Penso ad esempio ad Achille Lauro

A me interessa vedere quello che fa. E’ figo vedere a Sanremo, mentre tutta Italia sta davanti alla TV, Achille Lauro travestito da Regina Elisabetta. Ma non è che se fa quello, allora è diventata una cosa queer. Non è un portavoce della nostra comunità ma è una persona cis/etero che fa quella cosa e questo lo rende ancora più interessante. Non è che dobbiamo per forza portarlo da una certa parte per dargli valore, solo perché magari ci mancano delle icone. Allora, ammettiamo che ci mancano delle icone, che non siamo riusciti o non ci è stato permesso portare in alto nuove icone appartenenti alla nostra comunità. E’ un pericolo dare la responsabilità ad alcuni personaggi come Achille Lauro di rappresentare la comunità lgbtq+ anche se magari non ne sanno niente in merito.

Io critico questo, promuovere a icone chi non ha nulla a che fare con quella cosa solo perché non hai altre icone a cui aggrapparti. Vedere che degli artisti attivino questo processo è super figo, però ognuno nel suo. La figata è proprio questa, che chiunque possa portare avanti queste battaglie. Se diventa una roba nostra, non abbiamo vinto noi nessuna battaglia e non l’ha vinta nessun altro. Anzi, si rafforzano gli stereotipi. Invece il punto è che non ha a che fare con la transessualità ma ha a che fare con i ruoli sociali.

In Skam Italia hai interpretato Filippo, un ragazzo espansivo, esuberante e ironico. C’è un momento della quarta stagione in cui Filippo mostra una fragilità inedita. Mi riferisco alla scena in cui fa il test per verificare di non essere positivo all’HIV. Conoscendo il tuo impegno da attivista per sensibilizzare le persone sull’argomento, che cosa ha significato per te interpretare quella scena? Come sei riuscito a mettere quel tipo di emozione nella scena?

Ha significato tanto. Tutte le scene di Skam Italia in cui c’era una coincidenza della mia identità e il mio personaggio sono un motivo di grande orgoglio. Innanzitutto perché c’è stato un grande ascolto da parte della produzione nei miei confronti, anche una fiducia e una grande stima. La seconda cosa è il piacere di poter portare cose che io vedo tutti giorni al grande pubblico.

Il percorso per arrivare a quella scena è stato molto coinvolgente e naturale. In realtà ha a che fare con tante cose che faccio da diversi anni. Negli ultimi anni mi sono specializzato nella formazione peer to peer. Fino a qualche anno fa mi occupavo di test HIV insieme al personale sanitario. Sia in associazione, sia in luoghi di aggregazione come la gay street e le discoteche. Il mio ruolo era di fare delle piccole consulenze prima  e dopo i test. Mi è capitato più volte di dover dare risposte di positività, così come tantissime di negatività. E le reazioni sono diverse.

C’è chi credeva di averlo e quindi tira un sospiro di sollievo. C’è chi è ipocondriaco. Chi non lo ha mai pensato neanche lontanamente. Oppure, appunto, c’è chi risulta reattivo e quindi bisogna fare il test del sangue. Dalla disperazione alla persona super consapevole sull’HIV che non entra nel panico ed anche quest’ultima è una reazione molto bella da vedere. Oppure c’è chi non accetta e quindi nega.

Tutto questo bagaglio di esperienza umana che negli anni avevo collezionato mi ha fatto crescere in maniera indicibile

Questa esperienza che ho potuto vivere da volontario è una ricchezza che non puoi immaginare. Mi ha insegnato tanto delle persone, della fiducia che ti danno quando tu hai un ruolo. Anche se solo per dieci minuti della loro vita. Ti insegna l’umiltà, la fiducia, la possibilità di relazionarti ed empatizzare. Perché ogni persona è diversa e capisce un linguaggio diverso da quello della persona precedente.

Quindi il giorno in cui ci siamo messi a girare quella scena, sul set si è creato un clima molto intimo. Ci hanno dato la possibilità di respirare un’aria molto densa di quella emozione. Ci hanno fatto provare diverse volte quel momento. E poi è come se tutte quelle informazioni fossero venute fuori da sole. Ed è come se in me si fossero scatenate tutte le persone che avevo incontrato e a cui avevo rubato le emozioni. Relazionarci significa proprio questo, rubare e regalare momenti, emozioni, sensazioni. A volte non serve neanche parlare perché si crea un canale potente di energia.
E’ stato un momento molto intenso ed è sicuramente una scena che ricordo dal primo all’ultimo minuto.

Ed è bello perché poi nel fare quella scena abbiamo educato le persone, non solo quelle che guardano ma anche quelle che lavoravano sul set e che non sapevano cosa fosse il test. Questo è quello che chiamo “circolo virtuoso”, è così che si fa cultura.

Cosa ti ha spinto ad avvicinarti all’attivismo?

C’è stato un evento che mi ha fatto cominciare questo percorso. Durante il liceo io facevo attivismo studentesco, a sedici anni sono diventato rappresentante d’istituto. Quella elezione era andata molto bene perché ero stato il più votato ed ero già dichiarato. Quindi non c’erano segreti fra me e la scuola. Nonostante questo sei mesi dopo mi è capitato questo evento spiacevole. Mi hanno fatto una scritta fuori da scuola.

Da lì, io che ero stato sempre molto privilegiato, grazie ad una famiglia molto aperta e alle amicizie, ho aperto gli occhi su tutto ciò che era diverso dalla mia esperienza fino a quel giorno. Mi sono reso conto di quante persone subivano violenze quotidiane, venivano discriminate, non avevano persone con cui parlarne. E poi ho capito che, al di là di quanto forte tu sei, se socialmente fai parte di una categoria discriminata, farai sempre parte di una categoria discriminata. E basta pochissimo per essere colpito.

Nel mio caso la richiesta era molto specifica: veniva strumentalizzata la mia identità per rendermi incapace di fare il rappresentante d’istituto. Il Gay Center, l’associazione di cui oggi faccio parte, mi ha contattato offrendomi supporto.
E poi ho cominciato con il gruppo giovani, che è ancora il mio modo di fare attivismo alla pari.

Una delle battaglie di cui si è più discusso nel 2020 è stata quella per l’approvazione della legge che contro l’omobitransfobia. Indubbiamente questa legge rappresenta un passo in avanti, ma ci sono delle incongruenze o delle mancanze nel suo testo che secondo andrebbero migliorate?

Ci sono due problemi in questo disegno di legge. Il primo è l’articolo quattro, che  fondamentalmente protegge gli omofobi. Afferma infatti che c’è una libertà di opinione e di espressione sulla base dei propri convincimenti personali. Questo creerebbe un precedente disastroso. Se la mia religione dice che gli omosessuali sono malati, allora io sono libero di dirlo?
E’ la prima volta che viene inserita una norma del genere perché ci sono un sacco di persone che non volevano questa legge. E non parliamo solo della destra, perché la maggioranza ora non è di destra. Se nella maggioranza ci fosse stata la volontà di portare a casa una legge come si deve, lo avrebbero fatto. La verità è che la maggioranza è piena di ultracattolici che si sente minacciata da questa legge. Perché hanno paura della reazione della chiesa.

La libertà di espressione è un principio costituzionale, non serve dirlo. Il problema è che la libertà di opinione non è la libertà di discriminare l’altro o fomentare odio nei confronti delle altre persone. Quindi non c’è bisogno di specificare che siamo liberi di pensare ciò che vogliamo. Se viene aggiunto ad una legge che bastano convincimenti personali per legittimare un’opinione discriminatoria, significa che siamo meno liberi di prima. Non possiamo sapere come il giudice interpreterà quella cosa.
Così vale per le donne, perché questa è una legge anche contro la discriminazione di genere. E questa è una cosa che mi spaventa molto.
Tutto si gioca nelle aule di tribunale. Le persone devono avere modo di denunciare, se si crea ancora più burocrazia diventa ancora più difficile.

Il secondo problema è nell’articolo sette, che va ad istituire la giornata contro l’omobitransfobia il17 maggio. E’ una giornata che già viene celebrata ma in questo modo verrebbe istituzionalizzata. All’interno di questo articolo viene detto che, al fine di promuovere questa giornata, si devono attivare delle campagne e attività nelle scuole. Qual è il problema? Hanno scritto che si possono fare attività nelle scuole dopo aver fatto un patto con i genitori degli studenti e aver approvato il progetto nel Piano Triennale di Offerta Formativa. Significa che per andar a fare attività nelle scuole devo saperlo tre anni prima, farlo votare dal consiglio d’istituto e, se si tratta di una scuola media, farlo votare da tutti i genitori. E’ offensivo, perché con le altre cose non si fa? Stiamo andando a formare i ragazzi che hanno bisogno di informazioni che altrimenti nessuno direbbe loro.

Questo verrà usato in modo strumentale da tutte quelle associazioni per la difesa della famiglia tradizionale per fare pressione sui dirigenti scolastici. Già lo vediamo oggi questo problema nelle scuole. Il punto è sempre quello, per fare le cose si crea sempre più burocrazia e sempre più difficoltà. Per coprire quello che prima era un vuoto normativo, vai a neutralizzare tutti quei processi che erano stati creati per ovviare a quel vuoto. Questo accade perché chi sta in politica non ha la minima idea delle difficoltà delle persone che operano sul territorio al posto loro.

E’ chiaro che questa legge ha un valore gigantesco. Ma, solo perché la vogliamo, non possiamo dire che non ci sono dei problemi. Questo è il problema, quando la politica è distante dalle persone.

Nel 2020, per ovvie ragioni, abbiamo dovuto rinunciare ai Pride. Secondo te, quando potremo tornare a manifestare, cambierà il nostro modo di viverli?

Ti dico la verità, io spero di no. Nel 2020 è stata una scelta collettiva di tutti i Pride del mondo. Anche perché la nostra è una comunità molto sensibile al tema del virus, per motivi storici. Questa rinuncia si addolcisce dal fatto che l’abbiamo fatta insieme per un fine di preservazione delle nostre vite e della nostra salute.

Io spero che questa cosa si risolva e che i Pride tornino ad essere come prima. Anzi, che tornino ad essere più forti e fisici di prima, come le rivoluzioni degli anni ’70. Perché negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi città del mondo, erano diventati delle parate istituzionali con i carri, le aziende e molta attività di promozione.
No, io voglio la gente in piazza che marcia con le bandiere ed i pugni alzati e che si bacia davanti alle telecamere. Voglio tornare a quella roba popolare, dal basso, della gente che occupa le strade della città. La visibilità delle persone che bloccano il traffico e quel giorno la città è chiusa. E se volete, venite insieme a noi. Però in quel giorno la città ce la prendiamo noi.

Carola Varano

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