Giullare di corte del XIV secolo legato alla famiglia d’Este, Pietro Gonnella è celebre per le sue burle sagaci quanto per la sua particolarissima morte. Con l’ennesimo scherzo – sia pure involontario – al suo signore, il buffone si è guadagnato un’inattesa immortalità.
Sorride sornione Pietro Gonnella dal suo ritratto conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna: ne ha ben donde. L’autore del dipinto, Jean Fouquet – o, secondo alcuni, Jan Van Eyck – lo ha ritratto vestito quasi come un Papa. Proprio lui, che in vita era stato un giullare, il buffone di Obizzo III e di Niccolò III d’Este! Del resto, il guitto dai penetranti occhi cerulei e il pittore non si erano mai conosciuti. Gonnella, infatti, morì nel 1441, mentre il ritratto è più tardo: del 1450 circa, epoca del ritorno dall’Italia di Fouquet quanto di Van Eyck. L’intrico di rughe profonde e l’ombra di barba canuta sulle guance, dunque, sono frutto della fantasia del ritrattista. Ad accenderla, però, furono i racconti che s’inseguivano, sussurrati a bocconi in ogni angolo. Chi era quest’uomo e perché il suo nome era stato sulle labbra di tutti alla corte degli Estensi?
Per tutta la vita Pietro Gonnella era stato un buon servitore e un amico sincero della famiglia d’Este.
La sua straordinaria intelligenza, la battuta affilatissima e gli scherzi ingegnosi gli avevano procurato una fama notevole, che oltrepassava i confini della Signoria di Ferrara. L’eco delle sue trovate, anzi, si sarebbe conservato nei secoli, arrivando perfino in Spagna: nientemeno che nel Don Chisciotte trova posto una sua impresa. Miguel de Cervantes, infatti, cita una scommessa fatta da Gonnella con il suo signore. Il buffone aveva scommesso una forte somma sul fatto che il suo cavallo, vecchio e azzoppato, avrebbe superato nell’altezza di un salto quello di Niccolò. Dopodiché aveva fatto gettare il proprio ronzino da una finestra, vincendo così la scommessa. Il suo acume, tuttavia, non superava la sua lealtà: non c’era cosa, infatti, che gl’importasse maggiormente del benessere degli Estensi. Proprio questa lealtà, però, lo avrebbe condotto alla sua fine.
Nel 1441, Niccolò III si ammalò di febbre quartana e cadde in uno stato di invincibile prostrazione.
Il signore di Ferrara pareva aver perso addirittura il gusto di vivere. Incaricato di distrarlo, Pietro Gonnella accettò di accompagnare Niccolò presso il suo palazzo di Belriguardo. I medici speravano nell’influsso benefico delle campagne e dello scorrere del Po, lungo il quale il malato amava passeggiare. Tuttavia, i giorni passavano e la situazione non accennava a migliorare. Gonnella, che aveva sentito dire che un forte spavento poteva essere d’aiuto in casi simili, decise di passare all’azione. Messosi preventivamente d’accordo con un barcaiolo affinché stesse pronto a recuperare Niccolò, un giorno gli diede a tradimento una bella spinta nel fiume. L’acqua era profonda ma placida: l’Estense venne facilmente ripescato, terrorizzato, dal complice della trovata. La sera stessa, grazie allo spavento, la febbre era svanita. Conscio del brutto carattere di Niccolò, però, per precauzione Pietro Gonnella era fuggito a Padova prima ancora che il suo signore uscisse dall’acqua.
Il giullare aveva salvato la vita a Niccolò III: ciò bastava perché Pietro Gonnella potesse passarla liscia?
In fin dei conti, il buffone si era pur sempre macchiato del crimine di lesa maestà. Il signore di Ferrara gli era grato, certo, ma non abbastanza da sorvolare. Così, con la complicità dei consiglieri e della corte, escogitò uno scherzo per ottenere vendetta. Dimenticando di considerare il fatto che, purtroppo, è facile che uno scherzo pesante sfugga di mano – in questo caso, con esiti così infausti da passare alla Storia. Per prima cosa, infatti Niccolò fece convocare Gonnella, che si trovava allora ospite presso suo suocero alla corte di Padova. Il giullare, avendo fiutato il pericolo, si presentò su un carretto di terra straniera e non si sognò nemmeno di toccare il suolo ferrarese. Chiese, secondo il suo diritto, formali garanzie che non gli sarebbe stato fatto del male. Per tutta risposta, però, fu tirato giù senza tanti complimenti e condotto in prigione in catene.
Dopo averlo lasciato per alcuni giorni nelle segrete, al buffone mandarono un prete. Doveva raccomandare l’anima a Dio, gli spiegò il sacerdote, perché di lì a poco sarebbe stato decapitato sulla pubblica piazza.
E così Pietro Gonnella fece, preparandosi come poteva a una fine che in tanti anni di onorato servizio non si sarebbe mai aspettato. Quando venne il giorno dell’esecuzione, il popolo vociava costernato: il buffone era molto benvoluto e non ci si capacitava della sua sorte tanto ingiusta. Nemmeno gli astanti, infatti, conoscevano il vero disegno di Niccolò. Gonnella, salito sul patibolo bendato, una volta con la testa sul ceppo non sarebbe dovuto essere vittima della scure. Il boia, invece, gli avrebbe rovesciato sul capo una solenne secchiata d’acqua, in pagamento del tuffo nel Po che aveva fatto fare al suo signore. L’Estense già rideva sotto i baffi pregustando l’espressione stupefatta e sollevata del giullare, conscio di essere riuscito per una volta a beffarlo. La risata, però, dovette morirgli sulle labbra: pur colpito solo da un innocuo scroscio d’acqua, Pietro Gonnella era stramazzato al suolo senza più rialzarsi.
Si era spaventato tanto il giullare, all’idea della scure, che il suo cuore non aveva retto: sul patibolo aveva comunque reso l’anima a Dio anzitempo. Prendendosi, però, una duplice vendetta.
Niccolò III dalla morte di Gonnella – come racconta Matteo Bandello, illustre novelliere rinascimentale – non si riprese più. Né si riprese Ferrara, visto che dopo anni i racconti erano ancora così vividi da ispirare un pittore che non lo aveva mai conosciuto. In realtà, proprio i racconti furono il mezzo dell’ultimo tiro birbone giocato dal giullare all’Estense e alla sua corte. Perché Pietro Gonnella non solo morì quando nessuno se lo sarebbe aspettato: dopo, divenne anche immortale. Immortale nell’arte, naturalmente, e non nella vita: una magra consolazione? Forse. Eppure, ciò sembra comunque conferire un lampo di maliziosa ironia allo sguardo del già citato ritratto del buffone. Di racconto in racconto, novellieri e cantimbanchi fecero fiorire un vasto filone di leggende sulla sua vita e sulle sue trovate. Un viaggio dalla sua epoca ai giorni nostri compiuto sul vascello di una straordinaria fascinazione.
Su Pietro Gonnella sono state scritte novelle e opere teatrali – fortunatissimo, ad esempio, è stato il Gonnella Buffone di Carlo Emilio Gadda. Perfino un film, E ridendo l’uccise, s’ispira alla sua morte, mentre il ritratto a lui dedicato è oggetto di almeno tre importanti saggi di pittura. Un risultato non di poco conto, per quello che doveva essere considerato in vita un semplice – per quanto geniale – buffone.
La particolarità della sua storia, insieme al suo ruolo sociale, fanno di Pietro Gonnella una figura affascinante e paradigmatica. Una figura per la quale risulta particolarmente evidente quanto scritto dal critico teatrale Roger W. Oliver:
il buffone è un uomo senza maschera, un critico della società, uno specchio della società. Quando la gente ride del buffone, ride di se stessa; quando piange il buffone, piange se stessa; e quando odia il buffone, odia se stessa.
Il suo sguardo magnetico, così come il suo atteggiamento irriverente, non mancano di catturarci. Forse, anche per farci riflettere sulla varietà delle sorti umane e sugli scherzi, talvolta crudeli, che può inventarsi il destino.
Valeria Meazza