“Lasciate dormire la Cina, perché al suo risveglio il mondo tremerà”: sono le celeberrime parole che Napoleone profferì in riferimento ad un paese enorme di cui egli riconosceva le risorse e le potenzialità latenti. Le previsioni dello stratega francese si stanno forse avverando, ma a quale prezzo?
Tanti giovani, 30 anni fa, piangevano di rabbia e delusione, in Piazza Tienanmen. Ore di sciopero della fame in una piazza lasciata senza acqua e senza scappatoie, se non la perseveranza. Uno sciopero più vicino ai sogni di tanti Don Chisciotte probabilmente consapevoli che il loro sacrificio non avrebbe sortito effetti.
Quel 1989 fa riaffiorare alla memoria di molti ciò che sarebbe successo di lì a pochi mesi, la caduta del Muro di Berlino, il collasso definitivo dell’Unione Sovietica, intrappolata in una guerra fredda logorante ed estenuante, fino alla resa. La Cina, la vera non allineata tra i paesi non allineati, resse il colpo. Non cadde a Tienanmen come non cadde dopo le turbolente vicende internazionali post-89, protagonista delle quali il cadavere del socialismo e dell’internazionale comunista.
I giornali parlano in questi giorni soltanto della crudele repressione che l’esercito cinese esercitò sulla folla, sulle organizzazioni, sul dissenso. Ma cosa è successo, quali sono gli antefatti, quali gli effetti di una vicenda tuttora di così grande risonanza?
Il tentativo di far cadere tutto nell’oblio della storia
Il 15 aprile 1989 muore il segretario del Partito comunista cinese, Hu Yaobang. Nel giorno dei funerali gli studenti scendono in piazza Tienanmen chiedendo di incontrare il premier Li Peng e dando inizio così allo sciopero all’Università. Un mese dopo, il 13 maggio, migliaia di studenti occupano piazza Tienanmen accusando il governo di corruzione. La visita di Gorbaciov a metà maggio diviene il pretesto per esacerbare le proteste. Inneggiando alle perestrojka, la piazza di Tienanmen diventa ben presto il rituale di un sacrificio politico. Consapevoli dopo poche ore che il governo cinese non sarebbe sceso a compromessi, ogni parola al megafono un’ombra ferita, una lezione interrotta, un’occasione perduta, un sacrificio collettivo.
Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 l’esercito si muove verso piazza Tienanmen e apre il fuoco sugli studenti. Su ordine di Deng Xiaoping, l’Esercito popolare di liberazione (Epl) usò la forza per sgomberare i manifestanti riunitisi da quasi due mesi nel centro della capitale per chiedere democrazia: «Chiediamo qualcosa, per esempio il diritto di parola», uno dei timidi slogan della protesta. Qualche ora dopo, il tentativo di far cadere tutto nell’oblio della storia era già in atto. La Cina non ricorda piazza Tienanmen, lo fa la stampa straniera, lo fanno i capi di Stato che vogliono mettere in cattiva luce il paese, lo fanno gli analisti come pretesto per parlare dell’attuale potere economico cinese. In Cina una campana di silenzio e tutto intorno voci che bussano forte.
Piazza Tienanmen, un’operazione necessaria?
Secondo quanto riporta anche il Limes, una delle principali riviste di geopolitica in Italia, la scelta della repressione non è vista dal governo come un errore da seppellire nei meandri del non detto, ma un’operazione necessaria affinché vicende simili non si ripresentino. Un editoriale di Global Times, versione inglese del Huanqiu Shibao, ha definito gli “incidenti” di Tiananmen “come un vaccino per la società cinese” che l’ha resa “immune contro qualunque grande tumulto politico futuro”.
L’organismo cinese ha forse distrutto il virus della democrazia, ma esistono microrganismi latenti, che sopravvivono dentro gli organismi in maniera silente e si scatenano alla minima fragilità. L’esercizio del soft power cinese potrebbe perdere di efficacia, la nuova Via della Seta divenire una via di feltro duro, i confini ideologici trasformarsi in un ostacolo per l’apparentemente inarrestabile avanzata cinese. Ogni sistema chiuso non appena si apre troppo rischia di straripare. Gli argini del Partito comunista cinese sembrano ancora molto resistenti, ma a volte basta un piccolo errore e scoppia il Vajont.
Giulia Galdelli