UN GIALLO IMPERIALE
Quando nel 6 (o 7) d.C Livia Drusilla, terza moglie di Augusto, convinse il marito a ripudiare e confinare il nipote ed erede Agrippa Postumo in quel fazzoletto rubato al mare che è Pianosa, difficilmente immaginava che le macchinazioni politiche per favorire il suo di figlio – Tiberio – al soglio imperiale sarebbero state decisive per il destino dell’isolotto.
Avendo infatti saggiato la possibilità di diventare imperatore, Agrippa Postumo, seppure in cattività, diede prova di sapere come spendere i soldi e come spremere il seguito di quasi duecento uomini che finirono relegati con lui nell’arcipelago tirrenico. Una sontuosa villa sul promontorio, un palazzo al centro dell’isola, bagni termali, vasche per l’allevamento dei pesci e persino un teatro. Niente male per un lembo di appena dieci chilometri quadrati formato da sedimenti marini.
Ma ciò che costituì la maggiore eredità lasciata dallo sfortunato Agrippa, assassinato pochi anni dopo, è una piccola, ma fiorente, azienda agricola molto vicina alla riva del lato ovest dell’isola. Di lì, autentico miracolo della natura, sgorgava infatti una fonte di acqua dolce dove le navi andavano a rifornirsi nelle rotte dell’alto Tirreno. Grazie all’operosità dei pochi braccianti che ci lavoravano quel centro agricolo divenne una tappa forzata per i marinai che potevano acquistare prodotti della terra e animali e costituì il centro attorno a cui sopravvisse l’attività umana di Pianosa per diversi secoli.
È infatti attestata attorno al quarto secolo la creazione di un vasto sistema di catacombe, il più settentrionale d’Italia, da parte della comunità cristiana di pianosini che, un po’ in accordo con le usanze del tempo, un po’ per risparmiare il preziosissimo suolo, onoravano i propri morti scavando la friabile arenaria conchiglifera di cui è composta Pianosa.
‘PRIGIONIERA’ DI UN DESTINO
Contesa per lungo tempo da Pisa e Genova durante il medioevo, popolata e spopolata, invasa quando dai pirati quando dai gabbiani corsi, è ancora sotto un grande uomo del passato, l’ultimo granduca di Toscana Leopoldo II, che Pianosa tornò a far parlare di sé. Rinunciando ai vani tentativi di ripopolamento, nel 1858, Leopoldo si ricordò degli studi classici fatti in gioventù ed ebbe l’intuizione di copiare quanto fatto da Augusto un paio di millenni prima, riconvertendo Pianosa in un’isola carceraria. Dello stesso parere anche i funzionari governativi del neo costituito Regno d’Italia che confermarono la scelta e suggellarono il destino dell’isola.
Tutta l’isola, inclusa la frazione popolata dai civili, era soggetta all’autorità del direttore della colonia penale e, almeno fino agli anni sessanta, erano proprio i condannati a svolgere tutte le mansioni necessarie allo svolgimento della vita nel piccolissimo centro. Idraulici, fabbri, falegnami, muratori: anche per un semplice guasto in casa si era soliti chiamare il detenuto di turno.
È negli anni settanta che le cose iniziano a peggiorare, prima con l’omicidio-giallo del direttore Massimo Masone e in seguito con la decisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di trasformare la “diramazione Agrippa”, l’ala dove dormivano i detenuti, in una sezione di carcere duro per i condannati per mafia o terrorismo. Dopo le stragi di mafia e la morte di Falcone e Borsellino vennero trasferiti nella nuova sezione molti boss mafiosi condannati al 41bis. A delineare la nuova area, monito della presenza dello Stato, un muraglione alto sei metri in cemento armato, il simbolo dell’isolamento nell’isolamento.
IN FONDO AL MAR
Nei due decenni successivi si registra il definitivo crollo dell’equilibrio su cui si era retta Pianosa negli ultimi cento e passa anni. Ormai l’isola è tristemente nota solo per le ripetute denunce dei sospetti abusi condotti dalle guardie nei confronti dei condannati e gli appelli di chiusura iniziano a farsi sempre più numerosi. Negli anni ottanta, esclusa la colonia penale, non si registrano più di una decina di abitanti permanenti sull’isola che, nel 1998, diventa area protetta entrando a far parte del Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano tornando ad essere spopolata.
Oggi che solo trecentocinquanta turisti al giorno possono mettere piede su questa zattera a largo del Tirreno, la natura sta inesorabilmente riconquistando i suoi spazi, tanto sulla terraferma quanto nei fondali marini, facendo di Pianosa un grande esperimento di biodiversità a cielo aperto.
Oltre alle specie di volatili simbolo del Mediterraneo, il gabbiano corso, la berta maggiore o il marangone dal ciuffo, l’isola ospita una flora autoctona che colora le sue coste frastagliate. Ginepro, rosmarino, lentisco sono solo alcuni dei profumi che inebriano all’alzarsi del vento. Straordinarie le vaste praterie di posidonia, tra le più suggestive dell’intero Mediterraneo, salvate dal divieto di pesca e navigazione.
MEGLIO SOLI CHE MALE ACCOMPAGNATI
Un raro, forse unico, esempio di paesaggio insulare incontaminato. Per ora al riparo da tentativi di saccheggio come quello paventato qualche anno fa da qualche affamato imprenditore volto a farne un esclusivo golf resort con tanto di elicottero per gli spostamenti per la vicina Elba. Tra le ipotesi anche quella di rendere Pianosa una “banca del genoma” dove conservare semi e varietà agricole ormai in disuso o la possibilità, tutta da esplorare, di aprirla ad un turismo sostenibile e rispettoso dell’ambiente.
Tutti ‘se’ per ora destinati a infrangersi contro il muro di gomma del non decisionismo italiano, tra rimpalli di responsabilità e scaramucce di potere su chi debba avere l’ultima parola, nella speranza di non dover attendere un nuovo Augusto per tornare a parlare di Pianosa.
Alessandro Leproux