Grazie ai recenti investimenti effettuati dalla Cina in Congo, Pechino raggiunge la posizione di testa nella produzione di batterie elettriche, con un occhio alla futura produzione di autovetture elettriche con il 62% del mercato mondiale del cobalto in tasca.
La Cina ha comprato l’anno scorso a maggio, per 2,65 miliardi di dollari, la miniera di Tenke nel sud-est della Repubblica democratica del Congo. Secondo il Financial Times, ciò dà a Pechino il controllo del 62% del mercato mondiale del cobalto, quindi la posizione di testa nella produzione di batterie elettriche, e quindi in assoluto favore nella produzione di auto elettriche di domani. La domanda di cobalto dovrebbe aumentare di due terzi nel prossimo decennio.
Di colpo Washington, l’Unione Europea e i loro grandi media han cominciato a spiegare che il presidente Joseph Kabila, il cui secondo mandato scade a fine anno, cerca di procurarsene un terzo, magari modificando la costituzione o rimandando sine die le elezioni, e ciò non è democratico. Ovviamente non lo è; essere al potere in Congo significa ritagliarsi fette in contratti come quelli della miniera di Tenke, un introito a cui non si rinuncia volentieri, specie quando si ha una tribù da accontentare. Ma gli americani puntano come sostituto veramente democratico su Moise Katumbi, ex governatore del Katanga e miliardario (come altro si diventa miliardario in Congo?), incoronato capo dell’opposizione; accusato di tentato colpo di stato da Kabila, Katumbi se l’è filata, attualmente sta a Londra – dove magari sta arruolando mercenari, chissà. I media cominciano a dare notizie di proteste che possono benissimo preparare una “primavera congolese”.
Andrew Korybko, l’analista americano che scrive per Sputnik News, in un lungo e complesso rapporto, rende conto delle”vaste ambizioni della Cina in Africa”.
Diga Inga 3
La diga “Inga 3” sul fiume Congo, che potrebbe cominciare ad essere costruita dall’anno prossimo con capitali cinesi, un mega-progetto, equivalente a venti centrali nucleari, che da solo coprirebbe il 40% del fabbisogno africano, e nelle intenzioni venderebbe elettricità anche all’Egitto.
All’unisono, dozzine di ONG occidentali hanno protestato contro il progetto per il suo “impatto ambientale”; rovinerebbe la foresta vergine e formerebbe un grande lago artificiale, per cui dovrebbero essere spostati 35 mila abitanti, facili da rendere malcontenti e ribelli.
Rotta Transoceanica Nord-africana (NTAR).
Un percorso integrato di ferrovie, scarrozzabili e infrastrutture di navigazione fluviale, che dovrebbe attraversare il Congo per unire il porto keniota Mombasa – sulla costa dell’Oceano Indiano – a quello di Matadi sull’Oceano Atlantico, due oceani unificati e il controllo territoriale della heartland africana, oggi quasi impraticabile. Un progetto di ferrovia tra Mombasa e Kampala (Uganda) potrebbe essere prolungato onde toccare Kisangani, nord-est del Congo, “da cui il fiume più profondo del mondo è navigabile fino alla capitale congolese Kinshasa, e a Brazzaville, capitale del Congo-Brazzaville. Da lì per Matadi non c’è che un breve percorso ferroviario da costruire. Alquanto più lungo, il tratto ferroviario da Brazzaville a Pointe-Noire arriverebbe ad un porto pienamente sviluppato con alti fondali”.
Rotta Sud-africana Trans-Oceanica (STAR)
La ferrovia TAZARA (Tanzania-Zambia Railways Authority), costruita dai cinesi già negli anni ’70, già collega la costa della Tanzania a Dar es-Salam, al centro delle zone del rame tanzaniane. A partire da lì, altri tratti ferroviari erano stati costruiti attraverso il Katanga, la regione ricchissima di minerali del Congo meridionale. Uno arrivava dal Katanga a Benguela in Angola, tutto caduto in abbandono per incuria, e poi definitivamente chiuso durante la lunga guerra civile angolana. Adesso la tratta angolana è stata riattata e modernizzata dai cinesi. I quali contano di prolungare anche la TAZARA dal centro dello Zambia alla giuntura di Angola e Congo con il progetto – già in via di completamento – della Ferrovia del Nord-Ovest.
Come mostra la cartina tratteggiata da Korybko, sono ben sette gli stati africani “dalla cui stabilità dipende la sostenibilità del progettocinese”: Congo, Congo-Brazzaville, Angola, Tanzania, Kenia, Uganda, Sudan, più altri tre “strettamente collegati in termini geo-strategici: Ruanda, Burundi e Malawi.
Altrettante possibilità di destabilizzanti primavere. Il Malawi è stato al centro di un tentato colpo di Stato in cui, secondo Korybko, c’entra anche la Germania, e che ha portato alla minaccia di arresto dell’ambasciatrice Usa Virginia Palmer, a febbraio 2016. Del Burundi s’è occupata l’Unione Europea, tagliando improvvisamente quasi tutto il finanziamento del contingente che il Burundi mantiene in Somalia in funzione anti-terrorista contro gli Shahab. E’ una cosa seria e grave: il Burundi fornisce quasi un quarto delle 22 mila truppe della Missione Somalia della Unione Africana (AMISOM), che dura da decenni, ed ha versato un contributo di sangue di 3 mila uomini, perché là si combatte. Il taglio improvviso dei fondi europei servirebbe a precipitare un cambio di regime che coinvolgerebbe Ruanda e Uganda, mobilitando ulteriori “armi di migrazioni di massa”.
In Congo-Brazzaville, una ribellione “spontanea” e pagata da Usa, Francia ed elementi NATO (il presidente Denis Sassou-Nguesso si stava troppo avvicinando ai BRICS) ha almeno ottenuto il risultato di inattivare la ferrovia tra Brazzaville e Pointe-Noire, ossia uno dei due terminali della NTAR, la traversa transoceanica Nord.
Nel complesso però, secondo Korybko, gli sforzi americani (e EU) di “contenere” le piste transoceaniche in via di realizzazione da parte della Cina non hanno avuto successo. Ciò fa temere che possa ricorrere a misure più aggressive. Il rinfocolare di conflitti intestini in Congo (sarebbe la terza crisi, dopo quella del 1960-65 e 1996-2003: cinque milioni di morti) avrebbe il vantaggio di “compromettere il commercio del cobalto da parte della Cina, e dunque bloccare i piani di Pechino per divenire leader nelle auto elettriche del futuro”. La rivoluzione dei colori per rovesciare Kabila e mettervi Katumbi, se fallisse, potrebbe trasformarsi in un piano B, la secessione da Congo del Katanga ricchissimo di minerali. La regione ha antiche pulsioni autonomiste, ovviamente istigate dall’Occidente, e il Kivu e l’Ituri sono in stato di instabilità permanente, percorse da milizia pro e anti-islamiche, pro ed anti-regimi; l’intera area del Grandi Laghi africani conserva nel sottosuolo minerali strategici valutato 24 mila miliardi di dollari: minerali che servono a fabbricare cellulari e batterie, computer e lampadine fredde, oro, tungsteno, tantalium, cassiterite, cobalto, diamanti…
Alcune di queste miniere sono state vendute da Kabila a un suo caro amico: Dan Gertler, miliardario israeliano, citato 200 volte nei documenti della Mossack Fonseca di Panama, la ditta di avvocati che copriva centinaia di clienti bisognosi di paradisi fiscali dove riciclare i loro profitti, resi noti da un dipendente-spifferatore un anno fa.
Evidentemente i rischi di fare l’industriale minerario nella zona sono più che compensati dai guadagni. Oggi, scrive Korybko, in questa vasta zona del Congo vige una sorta di “pace fredda” in cui i clienti stranieri si procurano i minerali rari “presso certi padrini statali di gruppi ribelli ugandesi e ruandesi o del governo congolese”; fra intermediari ribelli e funzionari corrotti, chi sa muoversi riesce ad accedere alle risorse ed inoltrare ai mercati mondiali. In fondo, è – o era – una situazione che va bene a Usa e altri, in un equilibrio che impedisce ad uno solo di diventare il controllore unico di queste ricchezze minerali, e quindi diventare una superpotenza industriale del futuro; i trasporti difficili (senza ferrovia, tutto il materiale è trasportato da autocarri lungo percorsi lunghi, difficili e pericolosi) in fondo garantisce l’opportuna “rarità” sui mercati di quei metalli. Se invece il Congo, con il sostegno cinese, riacquistasse il pieno controllo di quei territori, diverrebbe una potenza continentale capace di sfruttare correttamente la sua posizione di fornitore dei minerali.
Non sia mai.
E’ quindi possibile che gli Usa stiano preparando il tipo di guerra ibrida che abbiamo visto in atto dall’Irak alla Libia, dall’Ucraina alla Siria: sovversioni “pre-condizionate” accendendo etnicismi, conflitti religiosi, disparità sociali ed economiche realmente esistenti, “primavere”, sanzioni per rendere la vita quotidiana del comune cittadino più difficile, “cambi di regime”, fino all’intervento diretto magari “umanitario”.
Sempre, come regola generale, sostiene Korybko, “ il grande obiettivo di ogni guerra ibrida è di perturbare progetti transnazionali multipolari attraverso conflitti d’identità (tribali, religiosi, politici) provocati di fuori”. Un’altra regola è che l’America non scatena guerre ibride contro paesi alleati, o dove ha interessi diretti nel mantenimento delle infrastrutture di quei paesi. Il caos che provoca una guerra ibrida non completamente controllabile.
Naturalmente il Congo si presta alla perfezione, con le sue fragilità etnico politiche e secessionismi tribali, ad un bagno di sangue che bloccherà il gran progetto cinese, essendo oltre a ciò una delle primarie regioni del mondo dal punto di vista geo-strategico. La domanda è dunque cosa farebbero, cosa faranno i cinesi in questa evenienza. Fino ad oggi, in casi simili, non hanno reagito alla forza con la forza. Di fronte alla violenza americana sono scomparsi, anche a volte abbandonando grossi investimenti a metà. Notoriamente leggono un libro di strategia diverso da quello americano, l’arte della guerra di Sun Tzu. “Il meglio non è vincere cento battaglie su cento bensì sottomettere il nemico senza combattere.”