La petroliera Haven giace da trent’anni nel golfo di Genova: è diventato un ambito luogo per le immersioni e attira turisti da tutta Europa. Ma sui fondali ci sono ancora tonnellate di greggio che avvelenano il mare…
L’estate del ’91
Nei miei ricordi, l’estate 1991 ha un posto particolare. Niente di sentimentale, nessun evento personale particolarmente rilevante. Ma l’estate ’91 è una stagione indelebile per buona parte dei liguri. Io la ricordo come la stagione dell’olio d’oliva. Perché ogni giorno, al ritorno dal pomeriggio passato sulla spiaggia, la tappa obbligata – una volta rincasato – era la vasca da bagno. Armato di un batuffolo di cotone imbevuto di olio di oliva, esploravo la mia pelle alla ricerca di tracce di catrame. Non che ci fosse molto da sforzarsi: le macchie erano tante e ben evidenti. Un “regalo” a tutti i bagnanti liguri che era stato confezionato qualche mese prima dalla petroliera Haven, affondata a poche miglia dalle coste di Arenzano.
Non ricordo il boato. Dicono si sia sentito chiaramente anche a terra, a distanza di parecchi chilometri. Ricordo il fumo, quello sì. Denso. Nero. Si alzava in colonne altissime, ben visibili anche da dove vivevo io. Ricordo il vento da nord che lo teneva lontano dalle coste, fortunatamente. E quella sagoma nera, che pareva appoggiata sul mare – altrettanto fortunatamente stirato – che continuava a bruciare e bruciare…
Le immagini dell'incendio e il greggio che arriva sulle spiagge di Celle Ligure
Un disastro che avrebbe potuto anche andare peggio…
Nella ricostruzione degli eventi, gli esperti hanno più volte affermato che la fortuna diede veramente una mano in quell’occasione. Se di fortuna si può parlare a proposito di un incidente costato la vita a cinque persone e con conseguenze ambientali che ancora non si sono del tutto esaurite. Ma avrebbe potuto andare molto peggio. Le condizioni favorevoli del mare e del vento permisero all’incendio di continuare a divampare senza che il fumo tossico raggiungesse le località costiere. Buona parte del greggio contenuto nelle stive se ne andò così, in fumo. Inquinando l’aria, ma senza riversarsi in mare. 100.000 circa le tonnellate che bruciarono, tra le 35 e le 42 mila, secondo le stime fatte durante i processi quelle che si riversarono in mare. Il più grande disastro ambientale del Mediterraneo.
La petroliera Haven: da Chicago a Genova, passando per l’Iran e per la guerra
L’11 aprile 1991 è una giornata limpida: cielo terso, venti deboli settentrionali. Una bella giornata di sole primaverile, stesa sulla Liguria che si prepara per la stagione estiva. La super petroliera Haven è ancorata in rada, a largo di Voltri, quartiere ponentino portuale della città di Genova. Dal 7 al 9 aprile è stata ormeggiata davanti al Porto Petroli, per uno scarico parziale. Ora è ferma, in attesa di ulteriori ordini.
La Haven è una super petroliera. Lunga quasi 350 metri e larga più di 50 è dotata di tredici cisterne da carico. Uscita dai cantieri navali di Cadice e consegnata alla multinazionale Amoco Transport Company di Chicago nel 1973, aveva poi attraversato varie vicissitudini e cambi di bandiera. Venduta a una compagnia liberiana e battente bandiera cipriota dagli anni ’80, durante la guerra Iran-Iraq era stata colpita da un missile sparato da una motovedetta iraniana. Era rimasta ferma due anni nei cantieri navali di Singapore per le riparazioni, costate circa 80 milioni di dollari. Partita dal porto iraniano di Karag Island, quello che la aveva portata a Genova era il suo primo viaggio dopo le riparazioni. Sarebbe stato anche il suo ultimo.
L’11 aprile 1991
In attesa di future operazioni di scarico, a bordo si stanno travasando tonnellate di greggio dalla stiva 1, a prua, alla stiva 3, in centro nave. Ma qualcosa va storto. Sono le 12:30 e il comandante della petroliera Haver, il cipriota Petros Gregorakys, lancia il primo “may day”: «I have fire on board».
Il primo a raccogliere la richiesta di aiuto è Giancarlo Cerutti, comandante dei piloti del porto di Multedo. Senza indugio parte con il timoniere Elvio Parodi a bordo di una pilotina di 13 metri e si dirige verso la petroliera Haven. La situazione appare grave sin dal primo momento: è divampato un incendio di grandi dimensioni e nere colonne di fumo si levano altissime dallo scafo della petroliera. Il comandante Gregorakys invoca l’intervento degli elicotteri, che però non avrebbero potuto intervenire a causa del fumo.
La pilotina intanto si avvicina, in cerca di naufraghi, mentre il comandante Cerutti ordina via radio alla petroliera El Guardabie, ormeggiata non distante da lì, di salpare e allontanarsi, per evitare tragiche reazioni a catena. Poco dopo, un boato. Un’esplosione lancia in aria detriti e lapilli infuocati. Le comunicazioni con il comandante si interrompono. Il suo corpo non verrà più ritrovato. Insieme a lui moriranno quattro membri dell’equipaggio.
…posso assicurare che, anche se sono passati 25 anni, ogni minuto di quella giornata è impresso nella mia mente, soprattutto l’immagine di quei tre ragazzi che gridavano “Help Pilot – Help Pilot”, che ho visto bruciare come tre torce a tre metri dalla pilotina senza poter far nulla per loro. – Comandante Giancarlo Cerutti
Comandante Cerutti e timoniere Parodi, eroi tra le fiamme
Il comandante Cerruti e il suo timoniere riescono eroicamente a trarre in salvo 18 membri dell’equipaggio della Haven, mentre arrivano sul posto anche altri soccorsi che riporteranno sulla terraferma gli altri. Un azione eroica, che verrà premiata con una medaglia d’oro al valor di marina, il più alto riconoscimento in tempo di pace. Accanto a quella e ad altre onorificenze, Cerutti conserva una lettera del primo ufficiale:
Al pilota Comandante Cerutti
Noi ufficiali ed equipaggio dell’ormai perduta petroliera Haven, porgiamo il nostro ringraziamento al Pilota Cap. Cerutti che ha salvato le nostre vite ed ha permesso alle nostre famiglie di rivedere il ritorno a casa dei loro padri.
Il primo ufficiale della M/C Haven Donatos Th. Lolis.
Ulteriori esplosioni a bordo causarono lo sprofondamento dei ponti e la rottura degli ancoraggi. Come una nave fantasma, la petroliera Haven iniziò ad andare alla deriva verso Savona.
14 aprile 1991: la petroliera Haven affonda
Il 12 aprile iniziano le operazioni per limitare i danni ambientali causati dal riversarsi in mare del greggio, mentre l’incendio a bordo prosegue e il petrolio continua a bruciare. Le barriere di contenimento e altri interventi coordinati dalla Marina Militare riescono a contenere le fuoriuscite. Si cerca di pompare fuori dalle stive più greggio possibile. Nel pomeriggio un rimorchiatore aggancia la nave dal timone di poppa, nel tentativo di avvicinarla alla costa. Durante l’operazione, la prua si stacca dal resto dello scafo e si inabissa a 450 metri di profondità.
Il 13 aprile, mentre l’incendio prosegue, alle 9:35 si ode un altro boato, seguito da altre esplosioni. Bettoline e rimorchiatori, scaricano intorno alla nave acqua e solvente. Le prime chiazze di petrolio, intanto, raggiungono le coste.
Il 14 aprile, alle 10:05, la Haven affonda. Adagiata a 80 metri di profondità, con il castello di poppa che si erge sino a 35 metri sotto il pelo dell’acqua, tocca il fondo dopo tre giorni di agonia, trascinando con se ancora ingenti quantità di greggio.
Gli interventi dei soccorritori ripresi dagli elicotteri
La conta dei danni
L’estate del 1991, sulle coste liguri, è – inevitabilmente – l’estate del catrame. Nei giorni successivi all’affondamento, il vento però cambia, lo scirocco travolge le barriere di contenimento e il petrolio che ancora non si era fatto in tempo a pompare via, raggiunge le spiagge, da Arenzano ad Albisola Marina. Anche se, va detto, i danni ambientali che investono le spiagge, sono meno di quanto ci si potesse aspettare al momento del disastro.
Volontari e semplici cittadini dei paesi costieri si danno molto da fare nei giorni successivi. Con i mezzi artigianali che hanno a disposizione – acqua, olio, guanti di gomma, pale, stracci – raccolgono i grumi di catrame che arrivano sulle spiagge, ripuliscono le rocce, soccorrono i gabbiani e gli altri animali che restano invischiati nella marea nera. Uno sforzo comunitario commovente ed efficace: il grosso delle tracce del disastro viene cancellato dai litorali liguri. Ma sui fondali, nel frattempo, si depositano ingenti quantità di greggio.
A qualche mese dall’accaduto ENI e IRI stimano il danno in circa 2000 miliardi di lire. Poco dopo, mentre i procedimenti penali sono in corso, il governo Andreotti inizia a discutere un accordo per il risarcimento con armatori, assicuratori e Fondo Internazionale per l’inquinamento da idrocarburi.
Intanto si susseguono studi e perizie. Nel settembre del 1994 la Commissione Europea finanzia un progetto dell’ICRAM, l’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, per studiare la situazione e ricercare eventuali soluzioni. In collaborazione con l’equivalente ente francese, si riuscirono a condurre indagini fino a 800 metri di profondità. Le parole pronunciate in seguito a quelle indagini da Ezio Amato (all’epoca ricercatore e consulenze tecnico dei PM e oggi Responsabile per le emergenze ambientali in mare dell’ente ISPRA), rendono bene l’idea dei danni. Invisibili, ma ingenti.
Un paesaggio desolante. Le aree esplorate erano devastate. Accumuli di catrame delle più varie forme e dimensioni coprivano ampi tratti di fondale, fino al 90 per cento del campo visivo.
E ancora: «A tre settimane dal disastro erano già disponibili i risultati delle prime indagini. Ostriche, mitili e spigole, raccolti fino a circa quindici miglia nautiche a ovest-sud-ovest dal relitto, per esempio, mostravano chiaramente gli effetti inquinanti degli idrocarburi. Nel frattempo i ministeri della Marina Mercantile e della Protezione Civile avevano dato il via a un vasto programma di monitoraggio e di indagini che consentirono una prima bonifica. L’opera dei sommozzatori arrivò fino a dieci metri di profondità. Ma, poi, le indagini svolte con le reti a strascico rivelarono che il petrolio era affondato in un’area molto più estesa e a parecchie centinaia di metri di profondità. Era impressionante vedere le reti venire su cariche di catrame.»
Una vicenda “italiana”: il processo, il risarcimento, i fondi dirottati e la bonifica a metà
Il monitoraggio proseguì e la bonifica andò avanti a singhiozzo, fino al 2008, con un intervento considerato “definitivo” da parte della Protezione Civile. Interventi che però si concentrarono soprattutto sul relitto, quasi completamente svuotato di sostanze inquinanti, e nelle aree immediatamente circostanti. Troppo costoso pensare di andare giù in profondità. Anche perché – nel frattempo – sono andati avanti anche i processi per accertare le responsabilità del disastro e chi avrebbe dovuto provvedere, economicamente, a coprire i danni ambientali. Nel 1998 arrivò la sentenza: l’impossibilità di stabilire con certezza i responsabili, porta a risolvere la questione con un accordo stragiudiziale tra le parti. Che d’altra parte, come detto, avevano già iniziato a discuterne.
117 miliardi di lire: questo il risarcimento stabilito dall’accordo; una miseria rispetto ai 2000 inizialmente stimati; una cifra largamente insufficiente per la bonifica dei fondali. Il Fondo con cui il governo Andreotti iniziò le contrattazioni, nel ’92 – guarda caso, un anno dopo l’incidente – aveva modificato i protocolli. Quelli nuovi stabilivano che sarebbero state da pagare solo le “misure di ripristino tecnicamente ragionevoli”. Sì, ma ragionevoli per chi? Una misura completamente arbitraria che però venne accettata. Quei 117 miliardi vennero destinati, dal Ministero dell’ambiente, alla Regione Liguria. Così suddivisi: 32 miliardi per la bonifica in mare, i restanti ai Comuni ritenuti colpiti dal disastro ambientale.
La legge del ’98 stabiliva l’impiego prioritario di quei fondi per gli interventi ambientali. E la Corte dei Conti lo ribadì nel 2000. Eppure un paio di Comuni li hanno impiegati per riqualificare il lungomare, un altro per sistemare il depuratore…e così via: degli interventi in mare nessuna traccia. E i 30 miliardi rimasti nelle casse della Regione? Nessuno si era dato da fare per mettere insieme un intervento di bonifica. Così, nel 2005 il governo Berlusconi, con un’ordinanza, stabilì che se ne dovrà occupare la Protezione Civile, guidata da Guido Bertolaso. Vengono appaltati gli interventi per la parte più superficiale del relitto, dimenticando completamente i fondali marini e considerando il discorso chiuso.
La resilienza dei pesci e il recupero turistico
Eppure qualcosa di buono, da quella tragica vicenda, a trent’anni di distanza dal disastro, lo si può trovare. Intanto, la natura non si dà per vinta. Se sui fondali la situazione rimane tragica, il relitto è stato invece nei decenni colonizzato da flora e fauna marina ricchissime. Complice il fatto che lo specchio d’acqua in cui si trova il relitto sia interdetto alla pesca, in questi anni tra le sue rovine hanno trovato alloggio numerose specie bentoniche. D’altra parte il fondale, in quella zona, è prevalentemente fangoso e sabbioso. Perciò un gigante di lamiera come la petroliera Haven, offre appigli, tane e anfratti per animali e piante che altrimenti avrebbero colonizzato altri fondali. Un esempio di adattamento e di resilienza straordinario. Tanto che si fa strada l’idea – all’apparenza paradossale – di fare della zona un’area protetta.
Chi, come la natura, non si è arreso di fronte al danno subito inizialmente è il settore turistico. Dopo le prime pionieristiche immersioni – volte a partecipare alle operazioni di bonifica e messa in sicurezza del relitto – la petroliera Haven è diventata un’attrazione per i sub di tutta Europa. I diving center locali hanno iniziato a promuovere le esplorazioni su quello che è, a tutti gli effetti, il relitto sommerso più grande che si possa visitare in tutto il Mediterraneo. Un’immersione non semplice, ma emozionante e gratificante. Per chi è in possesso dei requisiti e delle capacità necessarie. Perché purtroppo, negli anni, tra i sub più sfortunati o quelli meno prudenti, la Haven ha portato con sé più morti di quelli periti nell’incidente.
Le immagini di un'immersione a bordo del relitto della petroliera Haven
Non solo la petroliera Haven: stiamo creando un mare di catrame
D’altra parte, a trent’anni da quella tragedia, si ripetono purtroppo disastri ambientali come quello della petroliera Haven. Forse meno “spettacolari”, ma altrettanto tragici. Super petroliere continuano a solcare le acque dei nostri mari, creando danni enormi. Dalla Cina ad Israele, gli ecosistemi marini sono devastasti dal greggio. Che, come dimostra la storia della petroliera Haven, anche a decenni di distanza resta lì, ad inquinare i fondali.
Simone Sciutteri