Se c’è una cosa di cui nella vita non ho mai voluto sentire il peso, questa è l’aspettativa.
L’ho sempre vista come un filo spinato all’interno del quale la mia libertà di azione diminuiva impercettibilmente, sotto il peso di un dover essere conforme a dei canoni pieni di paletti per una ragione inesistente. Un’aspettativa che, con la crescita, riguardava sempre più aspetti: una studentessa modello, una patentata responsabile, una giovane adulta in grado di scegliere, una donna consapevole di ciò che voleva dalla vita, un’amica infallibile, una fidanzata ineguagliabile, un essere umano capace di essere presente a tutto e affrontare tutto, mentre, guardandomi allo specchio, ammiravo una figura goffa la cui unica certezza era quella di non voler prendere alcuna decisione finché avrebbe potuto crogiolarsi nel suo senso di irresponsabilità, tirare avanti a voce bassa, inosservata. Sovversivi alla crescita.
Ma l’aspettativa è un osso duro, un peso costante, inevitabilmente destinato a crescere, per quanto distante si voglia scappare. E allora ho iniziato a correre, sempre più veloce, sempre più distante da qualsivoglia responsabilità, stanca di essere all’altezza di situazioni, stanca di dover essere perfetta quando in realtà mi sentivo più che distante dall’idea di perfezione.
Il gemito della corsa è stancante, ma liberatorio; pieno di intoppi, eppure un rifugio ideale.
Generalmente alla corsa si affiancava qualche piccolo cambiamento, ad opera di un viaggio nella maggior parte dei casi, al seguito di uno dei quali, nella Stazione di Roma Tiburtina nella fattispecie, presi un libro, nell’attesa di un treno, Il dizionario delle idee non comuni, di cui, inutile dirlo, il solo titolo mi era stato galeotto al primo sguardo.
Bando alle peculiarità e ai titoli nostrani nella ricerca di un libro, uno di quei vizi di cui dovrei liberarmi è di leggere l’ultima pagina del prescelto prima dell’acquisto, una sorta di prova del 9, con tanto di rischio di spoiler. Ecco, “uno zero può sorvolare con leggerezza, impunemente, con spirito libero, su diverse aree del sapere, anche le più difficili, matematica compresa, e scoprire per esempio che la parola cifra arriva dall’arabo sifr, che significa vuoto e indicava lo zero. E che Leonardo Fibonacci, nel suo Liber Abaci, nel 1300, ha tradotto sifr con zefiro, da cui zero: un piacevole venticello primaverile che attraversa la matematica, e la nostra vita, senza farsi troppo sentire.”
Uno zero, chiunque vorrebbe essere uno zero! Uno zero senza peso, libero di essere tondo, vuoto e pieno!
E continuando a cambiare città, conoscendo sempre più persone, mi sono convinta essere una cosa che in fondo accomuna un’intera generazione: il desiderio di dare il massimo detratto tuttavia dal peso di dover essere all’altezza di quanto chi ci sta intorno crede noi possiamo fare. Una responsabilità smisurata, infondata, che sta stretta come un collare attorno al collo, che toglie respiro, le forze e, talvolta, la voglia di fare.
L’aspettativa è un mostro, dai tratti indefiniti, che si cela dietro qualsiasi relazione umana, l’aspettativa ci rende fragili, incapaci di reagire. Bigotti o troppo aperti. L’aspettativa è un peso.
L’aspettativa è quel grido a cui di contro vorremmo dire che non vogliamo dare il massimo perché non vogliamo qualcuno da noi pretenda sempre di più. Vogliamo essere semplici e compresi, irresponsabili e perennemente infantili, capaci di sbagliare ed essere lodati anziché massacrati per questo. Perché a noi in fondo basta l’aspettativa covata verso noi stessi. Non vogliamo l’ansia di rapporti umani pronti a sommergerci, non vogliamo dover fare, vogliamo la nostra libertà di essere, di trovare noi stessi e una strada ancora indefinita da percorrere.
Vogliamo l’amicizia che sbaglia insieme a noi, che non si trascina i drammi di ciò che si dovrebbe fare, ma che si limita ad essere.
Vogliamo la carriera piena di intoppi, ma alla fine soddisfacente, che ci fa sbocciare improvvisamente, anziché carica di presupposti che alla fine dei giri di giostra lasciano il tempo che trovano.
Vogliamo l’amore che non chiede e non da, ma ha una sua continuità imperfetta di alti e bassi, perché l’ordinarietà è la noia da cui siamo sempre scappati.
Vogliamo essere all’altezza dei nostri sogni e di noi stessi, non del desiderio covato da una mente diversa.
Liberi.
“Una filosofia che ama unire la logica, il punto di vista della gente comune e le grandi visioni”.
Di Ilaria Piromalli