I nostri mari si stanno svuotando. Quello che fino a pochi anni fa gli scienziati descrivevano come il peggiore scenario possibile, è oggi una realtà: i pesci stanno scomparendo. E se è vero che l’inquinamento sta spingendo gli ecosistemi al collasso, la principale pausa del depauperamento dei mari è la pesca illegale.
I numeri della pesca illegale
La pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (INN) impoverisci gli stock ittici, distrugge gli habitat marini e indebolisce le comunità costiere, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. È infatti il fattore principale del sovrasfruttamento degli oceani, che minaccia la sostenibilità degli ecosistemi acquatici e la loro biodiversità.
La pesca illegale si espleta attraverso pratiche distruttive, come la pesca con cianuro, l’uso di dinamite o di corrente elettrica. Il cianuro serve per stordire i pesci, in modo da poterli catturare più facilmente. La dinamite e la corrente elettrica invece uccidono i pesci che così galleggiano in superficie e vengono raccolti dalle reti senza difficoltà (Marine Stewardship Council).
Secondo l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura, il 31% degli stock ittici globali è sfruttato al di sopra del livello di sostenibilità biologica, mentre il 61% è sfruttato a pieno regime. Le riserve di pesce del Mediterraneo, per esempio, sono sfruttate al 93%.
Si stima che ogni anno vengano pescate illegalmente tra le 11 e le 26 tonnellate di pesce, con perdite quantificabili tra i 10 e i 23,5 miliardi di dollari. Questo significa che la pesca illegale corrisponde al 13%-31% della produzione ittica mondiale dichiarata. Questo valore sale fino al 40% in alcune aree.
I pesci muoiono insieme ai loro ecosistemi e alle comunità costiere del Sud del Mondo
Non c’è dubbio: la pesca illegale sta spingendo le popolazioni marine al collasso. L’impoverimento degli stock ittici ha già raggiunto il punto di non ritorno in alcuni bacini, tra questi il Mediterraneo, i Caraibi e il Mar Nero, e il suo impatto inizia ad avere ripercussioni sull’intero ecosistema. È il caso del nord del Pacifico, dove la pesca eccessiva di aringhe e salmoni sta portando alla triste scomparsa di un pod –gruppo famigliare- di orche residenti meridionali. La popolazione, prima costituita da 200 esemplari, ne conta oggi solo 73.
La pesca illegale minaccia anche l’equilibrio delle comunità che vivono di pesca, sia lavorativamente parlando, sia per quanto riguarda la loro dieta.
Sebbene l’Europa e gli Stati Uniti rappresentino i principali mercati per il pesce a livello mondiale, sono le popolazioni costiere del Sud del Mondo quelle che maggiormente subiscono gli effetti dell’impoverimento degli stock ittici.
Secondo il WWF, circa 520 milioni di persone nel mondo dipendono dalla pesca, e per oltre 2 miliardi il pesce è la principale fonte di nutrimento. A causa della pesca illegale, queste realtà vanno incontro a sempre più precarie condizioni socioeconomiche e di salute. Ciò è particolarmente vero nel sud-est asiatico, in Oceania e in Africa. “In vaste aree del mondo, dove il pesce è la principale fonte di proteine, la preoccupazione maggiore è la malnutrizione diffusa e persino la fame”, afferma Sean Anderson, professore alla California State University Channel Islands.
La pesca illegale e i sussidi alla pesca
Data la natura dell’industria ittica, la pesca illegale sfugge alle politiche di controllo e regolamentazione. Eppure ci sarebbero gli strumenti per porre un freno a pratiche che stanno distruggendo gli ecosistemi dei mari in tutto il mondo. Ma sembra esserci una certa reticenza a mettere in atto azioni forti. Secondo Mittermeier, co-fondatrice della SeaLegacy, la spiegazione sta nella politica di molti governi che “sovvenzionano grandi flotte di pesca per catturare stock in continua diminuzione”.
Un’indagine della University of British Columbia ha preso in esame 152 paesi costieri, scoprendo che, nel 2018, hanno investito 22 miliardi di dollari in sussidi nocivi, pari al 63% degli investimenti a supporto dell’industria mondiale della pesca. Questi sussidi non sono regolamentati e finiscono per finanziare pratiche di pesca non sostenibili.
Ne è un esempio la Cina. Con i suoi 3.000 pescherecci che navigano dall’Africa all’Antartico al Pacifico, la Repubblica Popolare Cinese possiede la più grande flotta peschereccia al mondo. Secondo lo studio, negli ultimi dieci anni ha aumentato di un 105% i sussidi alla pesca dannosi. L’Europa non è da meno: nel corso del 2018, ha destinato 2 miliardi di dollari al finanziamento di pratiche di pesca non sostenibili.
Mentre gli stock ittici si stanno svuotando a una velocità vertiginosa, e mentre i membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) cercano di raggiungere un accordo per ridurre i sussidi nocivi, molte nazioni remano contro. Secondo Rémi Parmentier, direttore del Varda Group, “l’ingrediente che manca è la volontà politica di spingere la trattativa fino al traguardo”.
L’Accordo sulle Misure dello Stato di Approdo (PSMA), ratificato nel 2016, ha rafforzato le norme a tutela di una pesca sostenibile, basata sulla gestione efficace delle risorse. Tuttavia, in molti paesi, la messa in atto dell’accordo risulta complicata, e le misure previste né sufficienti né applicate correttamente.
Gli schiavi del mare
La pesca illegale è devastante per l’equilibrio degli oceani, e va di pari passo con l’aumento del rischio delle violazioni dei diritti umani.
Il rapido declino degli stock ittici, accompagnato dalla crescente domanda di pesce, ha indotto l’industria della pesca a cercare manodopera in paesi a medio e basso reddito, incentivando l’uso di lavoratori migranti.
La mancata trasparenza nella pesca e le condizioni di relativo isolamento del lavoro in alto mare rendono particolarmente precaria la posizioni di molti pescatori.
Migliaia di lavoratori si trovano intrappolati sui pescherecci, in mezzo all’oceano, a migliaia di miglia da casa, per periodi di tempo lunghissimi, vittime di condizioni di lavoro disumane, sfruttati, minacciati, costretti a sopportare abusi fisici e psicologici, a vedere i compagni morire e i loro corpi gettati in mare. Spesso sono lavoratori migranti che, a causa delle barriere linguistiche, cadono preda di agenzie e mediatori che li avviano a un circolo vizioso di debiti che non riusciranno mai a ripagare, di stipendi trattenuti, di documenti sequestratati. Le testimonianze raccontano di uomini attratti con la promessa di un lavoro ben retribuito, che vengono poi picchiati o drogati e si risvegliano in mare, a bordo di navi da cui è impossibile scappare.
Report come Blood and Water dell’organizzazione Enviromental Justice Foundation (EJF), e ricerche di organizzazioni quali Walk Free Foundation e International Labour Organization (ILO) descrivono la schiavitù e il traffico di esseri umani nel settore della pesca: una forza lavoro vulnerabile, invisibile, i cui drammi vengono inghiottiti dal fragore dell’oceano. Il lavoro di inchiesta ha dimostrato che il problema non resta circoscritto ai paesi poveri: le vittime degli abusi sono pescatori di tutto il mondo, che lavorano su barche battenti bandiera dei paesi sviluppati e in via di sviluppo. Dall’Asia, agli Sati Uniti all’Europa.
Il ruolo del consumatore
Nonostante sia facile e comodo addossare le colpe a “altri” -i governi, l’industria ittica-, e nonostante quello della pesca illegale e delle violazioni dei diritti umani ad essa legati sembrino problemi lontani, all’origine di questo meccanismo ci siamo noi, i consumatori, con la nostra insaziabile fame di pesce a basso costo.
Secondo la FAO, il consumo mondiale di pesce è più che raddoppiato negli ultimi 50 anni. I dati indicano un consumo medio annuo per persona di 25 chilogrammi. Per alcuni paesi europei, la media è addirittura più alta. La crescita della popolazione mondiale lascia supporre che questo dato sia destinato ad aumentare ulteriormente.
Non ci accorgiamo della scomparsa dei pesci, perché questo sterminio silenzioso avviene lontano, in mare aperto. Non vediamo il dramma dei pescatori-schiavi perché si perde tra le onde dell’oceano.
Eppure dovremmo interrogarci su quello che possiamo fare, ed esigere che il pesce che mangiamo sia etico, legale e sostenibile, e che non metta a rischio la biodiversità marina e la dignità umana. Per una pesca libera dalla schiavitù. Per un oceano più sano.
Camilla Aldini