La situazione delle persone con disabilità in Africa è complessa e varia da paese a paese, come è normale aspettarsi da un continente così esteso e con il più alto numero di Stati indipendenti al mondo. Tuttavia, tra un territorio e l’altro si riscontrano pratiche e problemi comuni.
Per cercare di uniformare la situazione e per garantire supporto, diritti e sicurezza agli africani è nato il Protocollo Africano sulla Disabilità. Una carta dei diritti è il primo passo, ma la strada verso la piena integrazione è ancora lunga e pregiudizi e superstizioni perdurano in molte aree.
Dati sulla disabilità in Africa
Il primo ostacolo che si incontra nel tentativo di illustrare la condizione delle persone con disabilità in Africa è la mancanza di dati uniformi per tutti i paesi. Non tutti raccolgono dati a riguardo, per questo la percentuale presunta oscilla tra il 2% e il 20%. Le Nazioni Unite stimano che circa 80 milioni di africani vivano con una qualche forma di disabilità.
Dati parziali indicano che la maggioranza di loro vive in territori rurali ed è di genere femminile. I bambini con disabilità sono spesso costretti ad abbandonare gli studi a causa delle risorse insufficienti delle scuole e il 30% non riceve alcuna istruzione; ciò si traduce in alti livelli di disoccupazione (fino al 60%) che spingono le persone a chiedere l’elemosina in strada come unica possibilità di sopravvivenza.
I trattati internazionali
I diritti delle persone con disabilità sono formalmente garantiti nella quasi totalità degli Stati del mondo. Il trattato che ne disciplina le condizioni è la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvato nel 2006. Il trattato nasce dai principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e li estende alle persone con disabilità. Questo sulla carta. Nella realtà sappiamo che questi diritti faticano ancora ad essere goduti da chi li detiene. Il trattato, inoltre, raccoglie indicazioni generali, che non si basano sulle specificità dei singoli paesi e che non ne considerano le diverse culture.
Il Protocollo Africano sulla Disabilità
Per includere le specificità del caso africano è nato il Protocollo Africano sulla Disabilità. Il testo è stato presentato durante un’assemblea dell’Unione Africana (che comprende tutti gli Stati del continente) ad Addis Abeba nel 2018. I valori e i principi di base sono gli stessi della Convenzione ONU, ma declinati secondo la prospettiva africana. Prende in considerazione l’effettiva vita vissuta dalle persone, le credenze, le cure tradizionali e le superstizioni intorno al tema della disabilità.
La situazione delle persone con disabilità in Africa: tra tradizioni, superstizioni e pregiudizi
Tradizionalmente, il concetto di malattia in Africa è profondamente diverso da quello occidentale. La malattia e la disabilità non sono frutto del caso, ma hanno a che fare con il divino e con gli spiriti, una punizione o un disequilibrio in un intreccio di spiritualità e sovrannaturale. Questa prospettiva fa sì che i malati e i disabili siano vittime di superstizioni e pregiudizi, così come le donne che li hanno messi al mondo.
Quando nasce un bambino con disabilità la colpa è della madre che è stata infedele, di una maledizione ancestrale che colpisce la sua famiglia o di una possessione demoniaca. Queste credenze sopravvivono in alcune aree del Camerun, dell’Etiopia, del Senegal, dell’Uganda, della Nigeria e dello Zambia e portano i bambini ad essere vittime di discriminazioni e violenze fisiche e sessuali.
I loro famigliari arrivano a nasconderli alla comunità pur di non essere colpiti dallo stigma. In molti casi non frequentano la scuola perché le conoscenze sulle loro condizioni sono limitate. È il caso dell’epilessia, che viene addirittura considerata contagiosa in alcune zone, ma anche della sordità, che porta a credere che i bambini non possano imparare e che sia quindi inutile includerli nei progetti scolastici.
Esiste poi il problema della salute mentale degli ex combattenti delle guerre civili, spesso bambini. Non ricevono alcun supporto e cercano aiuto nelle droghe per superare i traumi vissuti, peggiorandoli. È il caso del Sierra Leone, dilaniato da dieci anni di guerra civile e da una delle più gravi epidemie d’Ebola del continente africano che hanno lasciato ferite profonde negli abitanti.
L’albinismo è una condizione particolarmente stigmatizzata e circondata da superstizioni: in Tanzania, Malawi e Burundi si crede che le parti del corpo delle persone albine portino fortuna e i casi di rapimento e amputazione sono comuni.
La situazione delle persone con disabilità in Africa: tra cure tradizionali e violenze
La medicina tradizionale africana include erbalismo, pratiche divinatorie e spirituali. Le pratiche sono profondamente intessute nella cultura dei luoghi e negli ultimi anni vengono valorizzate e preservate anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Fino all’80% di africani si cura attraverso pratiche di medicina tradizionale, efficaci per una presa in carico della salute dell’individuo nel suo complesso. È altresì vero che non tutte le condizioni possono essere trattate in questo modo e la coesistenza di pratiche tradizionali e di medicina scientifica si rivela spesso la scelta migliore. Tuttavia, gli alti costi della medicina scientifica di stampo occidentale e la mancanza di strutture nei territori rurali costringono le persone a ricorrere principalmente alla medicina tradizionale, con alcuni rischi.
In alcuni villaggi somali sopravvive “la cura della iena”: la persona che soffre di un disagio psichico viene messa in un fossato con una iena affamata che dovrebbe far spaventare i demoni che abitano il suo corpo. In altri, le disabilità psicosociali vengono trattate bevendo dell’acqua contaminata.
Molto diffuso anche “lo stupro della vergine”, che dovrebbe passare il virus dell’HIV dal malato alla persona che subisce violenza. A subire gli stupri sono persone di ogni età, soprattutto disabili.
L’impatto della colonizzazione nella situazione delle persone con disabilità in Africa
Alcuni studiosi precisano che, in molte culture, tradizionalmente la disabilità non era mal vista. Il cambio di prospettiva è avvenuto con le colonizzazioni, che hanno introdotto il modello medico patologizzante e quello della beneficenza dei missionari in un contesto che gli era estraneo.
Lo stesso sistema educativo è stato stravolto dai colonizzatori europei; introducendo insegnamenti utili ai loro intenti di sfruttamento o sul modello di quelli europei, fuori contesto e non adatti alle specificità dei territori. Le stesse classi differenziali, che promuovono l’isolamento dei bambini con disabilità rispetto al loro inserimento nella società generale, sono un retaggio coloniale.
Superare lo stigma, diffondere la conoscenza
Per contrastare le false credenze, le istituzioni e le associazioni della società civile si impegnano a fornire informazioni corrette sulla disabilità, dando il via ad un lento processo che porti fuori dalle superstizioni e dai pregiudizi. Il Protocollo Africano sulla Disabilità fornisce indicazioni sulla strada da seguire.
Il testo si apre con l’elencazione dei principi generali che vanno dalla garanzia della vita indipendente alla protezione dalle discriminazioni. Il protocollo prosegue elencando gli obblighi degli Stati nei confronti dei cittadini con disabilità; passa poi alla dichiarazione dei singoli diritti da garantire ed evidenzia le intersezioni tra disabilità ed età anagrafica e disabilità e genere di appartenenza.
Il testo si chiude con l’impegno ad una raccolta di dati sistematica che permetta di studiare a fondo la condizione degli africani con disabilità, in modo da facilitare la promozione e la protezione dei diritti degli stessi in un’ottica di cooperazione transnazionale ed internazionale.
Il Protocollo non è ancora stato ratificato da tutti gli Stati e non è ancora entrato in vigore, è impossibile perciò valutarne l’impatto e l’efficacia. Ciò che è certo però è che combattere pregiudizi radicati richiede tempo e sforzi congiunti. La legge da sola non basta; serve cultura, rappresentazione e autorappresentazione. Un lavoro di diffusione di conoscenza della disabilità e delle persone con disabilità che passi anche attraverso l’arte, i media tradizionali e quelli digitali.
L’Africa, con la sua popolazione giovane e ampie prospettive di crescita, ha davanti a sé sfide e opportunità per costruire una società diversa da quella che gli è stata imposta per troppo tempo. Una società che va avanti senza lasciare indietro nessuno e alla quale tutti possono contribuire con le proprie specificità. Un concetto che è parte della filosofia Ubuntu diffusa nell’Africa sub-Sahariana: «io sono quello che sono per quello che tutti siamo», una regola di vita che pone la compassione e l’interdipendenza al centro dei rapporti tra esseri umani.