Perdita del permafrost, i cavalli e le renne ci aiutano nella lotta al riscaldamento globale

Foto di Valeria Castiello

Secondo uno studio, gli zoccoli dei cavalli e di altri grandi erbivori compattano il terreno favorendone il congelamento e di conseguenza la conservazione del permafrost.

La neve, un isolante termico insidioso

Un team di ricercatori ha proposto una strategia per rallentare la perdita del permafrost, il caratteristico suolo gelato delle terre artiche. In genere, le mandrie di grandi erbivori compattano il terreno, riducendo lo strato di neve fresca, che isola il permafrost dall’aria gelida e lo mantiene caldo. Tuttavia, l’azione degli zoccoli, riducendo lo spessore del manto nevoso, mitiga il suo effetto isolante e ne garantisce la conservazione.




Riscaldamento globale e suoli ghiacciati

Il permafrost caratterizza le regioni alle alte latitudini del nostro pianeta, ma è possibile osservarlo anche in montagna. Purtroppo, l’innalzamento delle temperature ne favorisce lo scioglimento e, di conseguenza, la pericolosa liberazione di gas serra (CO2 e metano). Infatti, secondo uno studio canadese, nel permafrost sono immagazzinati circa 1600 miliardi di tonnellate di carbonio, che il disgelo potrebbe rilasciare in grandi quantità nell’atmosfera. Pertanto, se tale fenomeno non viene arginato, le emissioni di anidride carbonica aumenteranno significativamente, contribuendo al riscaldamento globale. Le stime degli esperti sono già piuttosto preoccupanti, infatti, entro il 2100 la metà del permafrost presente sulla Terra potrebbe scomparire definitivamente. 

Non solo i gas serra

Il permafrost è un congelatore naturale di batteri e virus, alcuni dei quali ancora presenti sulla Terra, mentre altri già scomparsi da secoli. Tuttavia, lo scioglimento dei terreni ghiacciati sta facendo riemergere microbi ancora intatti e quindi molto pericolosi. Ad esempio, nel 2016 sulla penisola di Yamal (Circolo Polare Artico) un bambino è morto per un’infezione acuta di antrace (Bacillus anthracis) e altre venti persone sono rimaste contagiate. In quell’anno le temperature particolarmente elevate avevano sciolto uno spessore maggiore di ghiaccio, dal quale è poi emerso il batterio. Quindi, il permafrost non è solo un diario dell’evoluzione microbica e virale, ma anche un potenziale pericolo per la nostra salute. Infatti, la liberazione di agenti patogeni potrebbe diventare la causa di nuove pandemie o della ricomparsa di infezioni ormai debellate.

Lo studio

Pubblicato su Scientific Report, è stato condotto da Christian Beer, un esperto di permafrost del Centro per la ricerca e la sostenibilità del Sistema Terra (CEN). Lo studio ha coinvolto un team ampio di collaboratori svedesi, russi e tedeschi, che si sono concentrati sulle possibili pratiche di gestione degli ecosistemi con suoli gelati. Sono partiti da una constatazione: nel Pleistocene park di Chersky il permafrost si conserva meglio. In particolare, ciò si verifica da quando, circa 20 anni fa, sono state importate numerose mandrie di bisonti, renne e cavalli. Partendo da questa osservazione, Beer ha ipotizzato che ci potesse essere una correlazione fra la presenza degli animali e il rallentamento del disgelo.




I risultati

Il team ha monitorato i cambiamenti del terreno, quali profondità della neve e temperatura del suolo nella zona di interesse, per circa un anno. Ha poi scoperto che, se cento grandi erbivori ripopolano un’area di circa un chilometro quadrato, si dimezza l’altezza della coltre di neve. Di conseguenza, il disgelo viene sfavorito e il permafrost si conserva più a lungo, ma soprattutto è ostacolata la fuoriuscita di gas serra in atmosfera. Secondo l’ultimo IPCC report, l’aumento incontrollato delle emissioni comporterà un incremento di 3,8 °C delle temperature del permafrost e il conseguente disgelo del 50% del suolo gelato sul pianeta entro il 2100. Invece, la presenza di mandrie di cavalli, renne e bisonti riscalderebbe il terreno di soli 2,1 °C, ovvero il 44% in meno.

Con i cavalli e le renne si potrebbe preservare l’80% del permafrost artico

In Svezia la profondità della neve è stata misurata in due siti diversi, dove risiedono delle mandrie di renne. In prossimità di Vassijaure si è registrato un calo della profondità dell’82% (15 cm) rispetto al sito di controllo (83 cm), a parità di condizioni ambientali e metereologiche. Invece, a Holmön la riduzione è stata del 17% (11,2 cm) in confronto alle aree prive di pascolo (29 cm). In ultimo, nel Pleistocene Park la presenza di 114 cavalli per km2  ha permesso un calo del 50%.

Renne (Rangifer tarandus) in Lapponia svedese. Foto di Valeria Castiello




Gli effetti della neve

La principale caratteristica termica della neve è quella di essere un ottimo isolante. Infatti, il calore nel terreno non si disperde in atmosfera, ma crea un microambiente in cui ci sono tra i 3 e gli 8°C di temperatura in più rispetto all’aria. In genere, si accumula durante i mesi estivi, mentre in inverno rimane intrappolato a causa dello spesso manto nevoso. Tuttavia i grandi erbivori, calpestando il terreno, riducono l’efficacia della neve come isolante, permettendo invece all’aria gelida di insediarsi nel permafrost e favorirne il congelamento.

Un metodo davvero promettente

Stando alle osservazioni attuali, il permafrost mostra già un riscaldamento di circa 0,2-2°C nelle terre artiche. I dati di Beer indubbiamente confermano che l’impiego di grandi erbivori potrebbe sensibilmente contribuire a ridurre la perdita di suoli gelati, anche utilizzando un numero inferiore di animali. Infatti, soprattutto in Svezia, i pascoli contengono molti erbivori, solo a Vassijaure 483 individui per km2, e purtroppo “sarebbe utopistico immaginare di insediare mandrie allo stato brado in tutta la regione del permafrost artico”. Tuttavia, si ottengono ottimi miglioramenti anche con numeri molto più piccoli, pertanto il metodo è assolutamente promettente, nonostante ulteriori approfondimenti siano comunque opportuni e necessari.

Eventuali effetti collaterali

“In estate gli animali distruggono lo strato di muschio che raffredda il terreno, il che lo riscalda ulteriormente”. Anche questo dato di fatto è stato preso in considerazione dal team, poiché è noto che le attività di pascolo, quando troppo intense, possono compromettere la vegetazione. Soprattutto i licheni e le briofite sono fondamentali nell’ecosistema, perché isolano il terreno dal caldo durante l’estate. Quindi, la loro distruzione favorisce in realtà la situazione contraria, ovvero il riscaldamento del suolo. Tuttavia, l’effetto è complessivamente trascurabile e, inoltre, l’impatto positivo degli animali in inverno è di gran lunga superiore.

Nel cuore dell’inverno restiamo a tu per tu con l’essenza intima del mondo. Poche le distrazioni, assenti i colori, elusivi gli odori, troviamo solo geometrie essenziali e il silenzio nella sua forma più raffinata.

Spesso riduttivamente definite “terre dai climi rigidi”, le regioni del Grande Nord sono in realtà ambienti estremamente vulnerabili. Difficili da abitare, sono più un’occasionale meta turistica che la scelta per un trasferimento definitivo. E per quanto non conoscano, almeno per ora, il sovrasfruttamento delle risorse, risentono di tutti gli eccessi che quotidianamente si verificano alle altre latitudini. Insomma, impervie, eppure così fragili, conservano nei loro ghiacci le tracce del passato per comprendere il futuro. 

Curioso, oggi sono vittime della nostra indifferenza, domani potenziali responsabili di grandi disastri. E in questo assurdo gioco di ruoli noi, consapevolmente, potremmo presto diventare delle vittime a cui c’è ben poco da giustificare.

Carolina Salomoni

Grazie alla fotografa Valeria Castiello per la foto di copertina

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