Perché siamo entrati nella prima guerra mondiale?

THE BATTLE OF CAPORETTO, OCTOBER-NOVEMBER 1917 (Q 79587) German infantry resting in the field near Vittorio, November 1917. Copyright: © IWM. Original Source: http://www.iwm.org.uk/collections/item/object/205191923

Che cosa spinse un paese sospeso tra arretratezza e modernità, povero e dilaniato dalle spaccature interne di un’unità giovane e precaria a spingersi sino al punto di non ritorno. Perché siamo entrati nella prima guerra mondiale?

Il 13 maggio del 1915 si dimette il primo ministro del Regno d’Italia Antonio Salandra. Pochi giorni prima, il 26 aprile, all’oscuro della Camera e delle altre autorità governative e militari l’ambasciatore del Regno Guglielmo Imperiali di Francavilla aveva firmato il Patto di Londra con cui l’Italia si impegnava ad entrare in guerra a fianco delle nazioni dell’Intesa.

Luglio 1914, l’Italia neutralista 

Allo scoppio delle ostilità appare da subito chiaro che l’Italia non seguirà Austria e Germania nell’impresa bellica. L’aggressione dell’Austria nei confronti della Serbia svincola infatti l’Italia da ogni obbligo verso gli scomodi alleati in virtù dell’articolo 4 del trattato della Triplice, un’alleanza a scopo puramente difensivo.

È inoltre con un certo giubilo che buona parte dell’opinione pubblica italiana aveva accolto la notizia, del 28 giugno, dell’omicidio dell’erede asburgico Francesco Ferdinando, odiato per essere tra i sostenitori della frangia che bramava vendetta contro l’Italia sin dalle guerre d’indipendenza del secolo precedente.

Uno scontro di civiltà

L’ingresso della Germania a sostegno dell’Austria aveva trasformato il conflitto in uno scontro di civiltà: da un lato la prepotenza teutonica che mirava ad assoggettare il mondo sotto il suo imperialismo militare e dall’altro le democrazie latine, civili e libertarie. Doveva apparire così, ai protagonisti dell’epoca, impregnati di darwinismo sociale e teorie razziali, lo scontro che avrebbe mutato per sempre gli equilibri nella vecchia Europa e nel mondo.

L’Italia si spacca

Mentre le ambasciate italiane di mezza Europa lavoravano in gran segreto, corteggiate tanto dalle forze della Triplice Alleanza quanto da quelle dell’Intesa, il ministro degli esteri, il marchese Antonino Paternò Castello di San Giuliano, aveva dato mandato agli ambasciatori nelle nazioni dell’Intesa di “ascoltare e riferire” su eventuali offerte.

I cattolici contro l’inutile strage

Intanto l’opinione pubblica del paese iniziava a fratturarsi facendo emergere due fronti contrapposti. Da un lato c’erano i pacifisti cattolici che sotto lo stemma pontificio di Benedetto XV condanneranno l’“inutile strage”. Il papa non poteva inoltre tollerare una guerra in cui l’Italia scendesse a fianco dell’anticlericale Francia contro la cattolica Austria-Ungheria.

Neutralisti convinti erano anche i socialisti ortodossi e i liberali sotto la guida di Giovanni Giolitti. Il più celebre tra i politici del tempo conosceva bene la debolezza italiana e confidava che il Paese avrebbe potuto veder soddisfatte le sue rivendicazioni mantenendo un atteggiamento neutrale.

Il fronte interventista




Molto più variegato il fronte opposto degli interventisti: vi facevano parte le frange estreme del socialismo rivoluzionario, le bande rosse ed “eretiche” del movimento operaio che vedevano nel conflitto mondiale un’occasione di rivoluzione sociale.

C’erano ovviamente i sostenitori della causa irredentista e i nazionalisti, da sempre favorevoli alla guerra. Oltre a rivendicare il completamento dell’unificazione in Trentino e nei Balcani sognavano un’espansione italiana nel Mediterraneo sulla scia dei grandi imperi moderni.

Vi era anche una corposa frangia eterogenea, composta da studenti, impiegati pubblici delle grandi città, insospettabili intellettuali (come Gaetano Salvemini) e persino artisti eccentrici come Filippo Marinetti e Gabriele D’Annunzio, che sarebbe di lì a poco tornato dalla Francia per sollevare la folla contro l’immobilismo italiano nel celebre discorso di Quarto. Anche il quotidiano più eminente, il Corriere della Sera, sotto la direzione di Luigi Albertini caldeggiava un ingresso in guerra.

Verso il patto di Londra

Nell’ottobre del 1914 moriva il ministro degli esteri, il marchese di San Giuliano, a cui successe l’esponente della destra liberale Sidney Sonnino. Interventista convinto, era certo che il mancato ingresso in guerra dell’Italia avrebbe significato la scomparsa del Paese dalla scena internazionale.

Le pesanti sconfitte subite dagli austriaci ad inizio 1915 sul fronte orientale, dove i russi stavano sfondando sui Carpazi e i soldati slavi in giubba austriaca disertavano in massa, si sommavano alle notizie provenienti da sud, dove gli anglo-francesi bombardavano senza tregua le roccaforti turche sullo stretto dei Dardanelli.

Vignetta sulla “nuova” Triplice Alleanza

Pace in vista? 

La guerra sembrava ormai volgere a favore dell’Intesa e si vociferava di una  pace per l’estate di quello stesso anno. Fu anche questo un elemento decisivo che spinse le autorità italiane a convincersi che un ingresso in guerra contro gli imperi dell’Europa centrale sarebbe risultato l’elemento decisivo alla risoluzione del conflitto.

Dopo lunghe trattative in cui l’Italia vide, a parole, riconosciute le proprie pretese espansionistiche, il 26 aprile del 1915 veniva firmato il Patto di Londra che vincolava la più debole delle sei potenze in gioco ad entrare in guerra non oltre un mese dalla stipula del documento.

La comunicazione della svolta

Interrotte le trattative con l’Austria, al presidente del consiglio Salandra non restava che informare il Parlamento e il paese della svolta intrapresa.

La data del 4 maggio segna la pubblica denuncia dell’Italia nei confronti della Triplice Alleanza, segno inequivocabile della posizione assunta dal governo a insaputa del Parlamento.

Rientrato a Roma per la ripresa dei lavori della Camera e venuto a conoscenza delle reali macchinazioni del governo italiano, il veterano della politica e detentore della maggioranza parlamentare Giovanni Giolitti minaccia la revoca del trattato con le potenze dell’Intesa trovando la solidarietà di oltre 300 deputati, che si recheranno presso la sua abitazione lasciando i loro biglietti da visita.

Il maggio radioso

Sarà questo un mese caldissimo fatto di scioperi, manifestazioni pubbliche, discorsi infervorati ai limiti della violenza verbale. Il “maggio radioso”, come lo rinominarono gli interventisti.

Un dispiegamento di forze propagandistiche sino ad ora sconosciuto in Italia: dalle colonne dei giornali alle aulee delle università, dagli scontri di piazza alle bastonate contro i deputati giolittiani, in quei caotici giorni di maggio Roma e altre città italiane furono teatro di atti di forza sotto il patrocinio della polizia e del ministero degli interni.

Le dimissioni di Salandra

Sulla scia del caos che dilagava anche il presidente del consiglio Salandra, il 13 maggio, rassegnava le proprie dimissioni e persino il re Vittorio Emanuele III minacciava di abdicare perché compromessosi con le nazioni dell’Intesa.

In realtà le dimissioni di Salandra vengono respinte dopo tre giorni e la necessità di scongiurare una crisi istituzionale e internazionale senza precedenti prevale sul sentimento maggioritario neutralista.

Se il 12 maggio, alla ripresa dei lavori parlamentari, una solida maggioranza garantiva il neutralismo dell’Italia, in pochi giorni, il 20 maggio, la Camera approvava la concessione dei pieni poteri al governo e sanciva la definitiva discesa in guerra del paese che, il 24 maggio, dava inizio alle operazioni belliche.

 

Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà.

Giovanni Giolitti, campagna elettorale per le elezioni del 1919

Alessandro Leproux

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