Di fronte alle immagini di Venezia dell’ultima settimana, subito è tornato alla mente quel progetto ormai storico per il contenimento delle maree che colpiscono la laguna su cui la città è stata costruita. Il Mose, con il suo nome biblico e diversi miliardi spesi per la sua realizzazione, ancora non funziona.
Carlo Giupponi, in una recente intervista per AGI, ha dichiarato che neanche il Mose avrebbe potuto salvare la città. Il vero problema dell’opera è la velocità con cui gli effetti della crisi climatica si sono manifestati nell’ultimo decennio. Ormai è difficile realizzare una diga che possa salvare Venezia dal suo futuro.
Nonostante questo però il Mose rimane una delle tante – troppe- grandi opere incompiute italiane. Per la sua realizzazione sono stati spesi i soldi un tempo dedicati alla manutenzione ordinaria dei canali. Se quindi comunque non poteva salvare Venezia, poteva evitare di peggiorare la situazione.
Nessuna forza politica si è presa la responsabilità di aver condannato Venezia. Destra e sinistra hanno scaricato la colpa l’uno sull’altro e il fallimento dello Stato non è stato riconosciuto. In realtà però i responsabili della mancata realizzazione possono essere noti.
Il nome “Mose” sta per Modulo sperimentale Elettromeccanico. La sua è una storia lunghissima che ha radici nel 1966. In quell’anno a Venezia l’acqua raggiunse il livello record – tutt’oggi imbattuto- di 194 centimetri. A quel punto si iniziò a parlare di costruire una barriera per proteggere la città dalle maree. Solo venti anni dopo però si scelse il metodo delle dighe a scomparsa, che permettono lo smaltimento totale delle portate di transito.
Nell’aprile 2003 a dare l’autorizzazione per la realizzazione del Mose è il comitato per la salvaguardia di Venezia, il cosiddetto Comitatone. L’opera si sarebbe dovuta comporre di 4 barriere situate in 3 bocche di porto. L’altezza massima della marea che si prevede il Mose riuscirebbe ad arginare è quella di 3 metri. Le 78 paratoie che compongono le barriere sono state pensate in modo da essere mobili. Attivandosi solo in caso di necessità quindi il Mose eviterebbe di danneggiare la bellezza della laguna veneziana.
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Nel maggio 2003 Silvio Berlusconi – a quel tempo Presidente del Consiglio- partecipò alla cerimonia di apertura dei lavori. Il suo gesto simbolico fu quello di inserire la prima pietra. A 16 anni di distanza le barriere ancora non sono in funzione. La vera storia del Mose è infatti una storia di scandali, inchieste, tangenti e mazzette.
Già nel 2009 si aprirono le prime indagini e nel 2013 il primo arresto fu quello di Piergiorgio Baita. Questo, così come i successivi nomi che finirono nelle mani del pm, era legato al Consorzio Venezia Nuova. Il consorzio si compone di varie imprese e cooperative ed è gestito dal “Comitatone”, autorizzato dal Ministro dei Trasporti. L’obiettivo stabilito dalla legge 798/84 è quello della salvaguardia di Venezia.
In poche parole lo Stato ha affidato ad un gruppo di imprese il compito di effettuare studi e valutare progetti che possano aiutare la città sulla laguna a sopravvivere. L’opera cardine di cui si occupa il Consorzio Venezia Nuova è il Mose.
Baita, amministratore delegato della Mantovani, dopo l’arresto collaborò con gli inquirenti. Fu lui a spiegare come fosse possibile che l’opera avesse finito per assorbire 6 miliardi di soldi pubblici, quando da progetto ne sarebbe dovuti costare a stento 2.
Il secondo arresto fu quello di Giovanni Mazzacurati, detto “Doge” proprio per la sua estrema influenza nelle questioni d’affari della città.
Lo scorso febbraio Baita ha accettato il patteggiamento: 2 anni di reclusione e beni da confiscare per un valore di 12 milioni di euro. Mazzacurati patteggiò prima del suo delfino, potendo così godersi la California fino alla sua morte lo scorso settembre.
Il 2014 fu poi l’anno di una vera e propria Tangentopoli veneziana. Si ripetevano infatti molti nomi già coinvolti nell’inchiesta Mani pulite. La maggiore difficoltà per le indagini era data dal fatto che gli imprenditori e la politica non avevano dialogato direttamente. Era stato invece istitutito un unico concessionario che riceveva i soldi pubblici e li gestiva.In questo modo era più difficile risalire ai singoli privati coinvolti nell’operazione.
Le indagini portarono a 35 arresti solo nel 2014. I nomi non erano solo quelli degli imprenditori, ma spuntarono i primi funzionari dello Stato e i politici coinvolti. Il ministro dell’Ambiente e delle Infrastrutture del governo Berlusconi – Altero Matteoli – e l’allora presidente della Regione Veneto – Giancarlo Galan – furono i più noti.
Galan è il vero e proprio nome d’oro dell’inchiesta. Fu Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali nel 2010 e Ministro dei beni e delle attività culturali nel 2011, nel quarto governo Berlusconi. Nel 1995 fu eletto come Presidente della regione Veneto, appogiato da Popolo della Libertà, l’Ulivo e la Lega Nord.
Galan fu recluso per 78 giorni e scelse poi di patteggiare, ottenendo 2 anni e 10 mesi e l’obbligo di risarcire 5.8 milioni allo Stato. L’ex presidente della regione con tangenti, mazzette e fatture ringonfiate aveva avuto più volte a che fare. Tanto che il suo nome riuscì fuori anche l’anno scorso nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio internazionale ed esercizio abusivo delle attività finanziarie. Il suo patrimonio fu sequestrato per un valore di oltre 12 milioni.
Nel frattempo al primo slittamento della deadline- dal 2011 al 2016 – si aggiungeva la vicenda giudiziaria che condannava il Mose a restare incompiuto. Ora si parla di 31 dicembre 2021.
Secondo i costruttori infatti l’opera è in fase di collaudo. Tuttavia le strane vibrazioni che sono state rilevate nel test di ottobre alla barriera di Malamocco non lasciano ben sperare.
Si prevede che una volta entrato in funzione il Mose avrà mangiato circa 7 miliardi di soldi pubblici. Inoltre per la sua manutenzione si stimano necessari 80-90 milioni ogni anno. La spesa è certamente rilevante eppure il suo ruolo potrebbe non valerne la pena.