Gli aspiranti medici che hanno sostenuto il test d’ingresso lamentano l’eccessiva presenza di domande di “cultura generale”.
Il test d’ingresso a Medicina, è risaputo, fa paura un po’ a tutti gli aspiranti medici. Si compone di sessanta domande da svolgere in circa cento minuti di tempo. Le domande riguardano principalmente il campo medico-scientifico ma, accanto ad esse, vi sono alcuni quesiti di logica, ragionamento e cultura generale. In particolare, quest’anno, le domande di cultura generale sono state portate da due a dodici, causando l’indignazione di alcuni aspiranti medici e, anche, di molte persone comuni.
L’obiezione mossa contro tali domande è quasi sempre la stessa: “cosa c’entra la cultura generale con la medicina?” Un’obiezione che potrebbe aver qualche senso effettivo solo davanti a un test composto in larghissima parte da domande di questa tipologia. Le domande in questione, però, sono solo una decina, il minimo sindacabile per poter riconoscere una persona in grado di “vivere nel proprio tempo” come un essere umano attivo e non come un’automa. L’obiezione, quindi, finisce per sembrare leziosa e dimostrativa di un certo atteggiamento che pare attanagliare grandi fette della popolazione.
Cos’è la cultura generale e a cosa serve?
La cultura generale è quell’insieme di conoscenze che consentono (e dimostrano) la comprensione e l’interpretazione della realtà da parte di un individuo. Nella cultura generale rientrano nozioni di storia, geografia, ecologia, logica, politica, economia e molto altro. La stessa capacità di comprensione di un testo scritto potrebbe rientrare in quest’ambito, così come la formula necessaria a trovare l’area di un rettangolo.
L’utilità della cultura generale consiste principalmente in due macrosettori. Per prima cosa essa rappresenta un’attitudine dell’individuo. Il possesso di conoscenze di cultura generale, infatti, dimostra una tendenza che spinge un determinato soggetto a documentarsi o informarsi, magari anche superficialmente, su ciò che succede intorno a lui. Allo stesso modo sottolinea la sua capacità di apprendere conoscenze basilari, (da scuole dell’obbligo) riconoscendone il valore e, dunque, non dimenticandole una volta terminati gli studi.
Il secondo macrosettore, invece, prende in considerazione il fatto che il possesso di nozioni di cultura generale è utile alla formazione del senso civico e professionale dei cittadini. Conoscere i meccanismi fondamentali del mondo che ci circonda permette ovviamente una migliore comprensione della realtà. Questo fattore provoca anche vistose ricadute sul ramo professionale. Conosciamo tutti, infatti, qualche avvocato, ingegnere, storico o economista che, a discapito della formazione ricevuta, mostra di non riuscire a comprendere i meccanismi fondamentali della politica, della scienza o dell’economia attuali.
La mancanza di cultura generale, quindi, indirettamente, può danneggiare anche la professionalità di un individuo.
Purtroppo è bene riconoscere che son tempi duri per questo genere di sapere. La cultura del nostro tempo è infatti essenzialmente specializzata e quasi chiusa. E’ idea diffusa che sia realmente necessario conoscere solo ciò che può risultare utile nell’immediato, possibilmente tramite un’attività lavorativa. E’ necessario conoscere tutto ciò che ci serve per poter “fare“. La realtà esterna non è oggetto di conoscenza, bensì di pura interpretazione. In piena post-verità non c’è niente da conoscere e non c’è niente da sapere. Non vi sono meccanismi basilari e, se vi sono, non devono essere “saputi” ma dedotti.
L’unica cultura spesso accettata è asservita interamente alla crescita e allo sviluppo professionale. Il “saper fare” come sinonimo del “sapere“, dimenticando la necessità di conoscere anche altro: tutto ciò che consente l’analisi critica e ragionata del reale.
“Se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi passerà tutta la vita a credersi stupido”.
Questa frase, attribuita ad Einstein, l’abbiamo sentita tutti. Ecco, questa frase, accuratamente incompresa, rappresenta l’emblema del contesto in cui ci troviamo e che ho cercato di descrivere sopra. Si lascia intendere, infatti, che si dovrebbe giudicare l’intelligenza di un pesce dal suo nuotare in acqua. La sua intelligenza sarebbe quindi dimostrata dalla sua stessa natura e dal suo nuotare. In questo modo, però, si dimentica cosa sia l’intelligenza, anche se intesa in senso puramente pratico.
Nella vita di tutti i giorni, infatti, l’intelligenza è quella facoltà che ci permette di comprendere ciò che ci circonda, fornendo risposte ai problemi e alle situazioni che si manifestano. L’intelligenza nasce quindi da un rapporto di scambio tra noi e la realtà circostante. Una realtà che, spesso e volentieri, presenta questioni che esulano dalla nostra “sfera di competenza“. Per capirci: giudicare l’intelligenza di un pesce dal suo starsene a mollo nell’acqua è come giudicare l’intelligenza di un uomo dal suo starsene sul divano.
Il pesce, infatti, forse non riuscirebbe mai ad arrampicarsi sull’albero. Ma messo davanti al problema potrebbe mettere in atto svariati comportamenti, alcuni più funzionali e altri meno.
Ecco, sono proprio questi comportamenti a dimostrare l’intelligenza e, indirettamente, la cultura generale. Tornando al mondo degli uomini: Se Tizio tira il pallone sul tetto può sicuramente prendere una scala per andare a recuperarlo. Di contro, però, Tizio è anche libero di eseguire altre azioni: tirare testate al muro, rubare la palla del vicino, citare in giudizio Adinolfi e così via. La scelta compiuta da Tizio al fine di recuperare la palla è un chiaro indicatore della sua intelligenza e, dunque, della sua capacità di comprendere il mondo e i suoi problemi concreti.
Quindi sì, l’intelligenza di un pesce si giudica anche dalla sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, così come quella degli uomini si misura anche al di fuori del loro “contesto di appartenenza“.
Andrea Pezzotta