Peppino Impastato è morto! Si è suicidato! Perché era stanco “della politica e della vita”.
Con queste parole, dai microfoni di Radio Aut, viene annunciata la notizia della sua morte; almeno è così che viene trattato nel film I cento passi, di Marco Tullio Giordana, dedicato alla figura del giornalista e attivista di Democrazia Proletaria.
Era il 9 maggio 1978 anche un piccolo borgo intriso di identità omertosa come Cinisi, non poté completamente ignorare la tragedia. Dopo tutto Peppino Impastato era figlio di Luigi, inviato al confino durante il regime fascista assieme allo zio e altri parenti, tra cui un certo “Don” Cesare Manzella. Il motivo dell’accusa era sempre lo stesso: erano dei mafiosi.
Dunque anche nelle vene di Peppino scorreva sangue mafioso, legato al boss Gaetano Badalamenti; qualcuno avrebbe insinuato.
I cento passi di lontananza
Quindi si trattò di omicidio di mafia; regolamento di conti? Assolutamente no!
Ma sin dai primi rilievi delle forze dell’ordine emerge, quello che potremmo definire, il “capolavoro” del depistaggio: Peppino Impastato aveva scritto un biglietto, dove dichiarava l’intenzione di volersi uccidere. Ma siccome è un creativo, decide che è meglio un’uscita spettacolare invece della solita e banale corda o dei barbiturici.
Peppino si ferma nei pressi del passaggio a livello, lascia la macchina alcuni metri più avanti, prende una pietra per spaccarsi la testa, poi sanguinante e moribondo, si riempie di esplosivo, accende la macchina come detonatore, si stende sui binari e si fa saltare in aria; così anche il servizio ferroviario è danneggiato.
Questo è la tesi che tanti, troppi, legati in qualche maniera a Tano Badalamenti, hanno sostenuto per anni, fino al 2002, quando il boss è stato condannato anche per quell’omicidio.
Ma la Sicilia degli anni ’70 non era quella degli anni 2000; non del tutto. Quel gruppo di giovani attivisti che alzavano la voce della coscienza e della libertà, da una radio privata, nel cuore del feudo mafioso palermitano, non era consueto e un giovane che si allontana dal retaggio indennitario della sua famiglia, sbeffeggiando addirittura un capo così potente, con l’epiteto di “Tano Seduto” era un attacco all’egemonia di un territorio.
Dal momento che non era un esponente politico e non lo si poteva ricattare nella maniera tradizionale, perché non ucciderlo e infamarne la memoria; come fu per l’ispettore Boris Giuliano e il giornalista Mario Francese, la cui passione per le “gonnelle altrui” fu loro fatale!
Peppino Impastato moriva ufficialmente 41 anni fa, ma già da subito la sua vicenda fu bollata come cronaca locale; forse perché lo stesso giorno veniva ritrovato il corpo senza vita del presidente DC Aldo Moro e non conveniva dare un martire alla sinistra parlamentare, in un momento in cui le Brigate Rosse facevano il bello e il cattivo tempo sulla società e la politica.
La storia di Peppino Impastato è una storia di coraggio e violenza, calunnia e redenzione, di cui il paese non è stato al corrente per troppo tempo, anche se probabilmente non lo avrebbe compreso.
Peppino è stato ucciso tante volte, ma altrettante è stato fatto risorgere; attraverso l’azione del fratello Giovanni, della madre Felicetta e anche della nipote Maria Luisa, che ne hanno ereditato la memoria e il messaggio, distillando in chi ha voluto davvero conoscere la sua figura, l’ideale di un giovane sognatore ribelle, tenace e appassionato, la cui ricerca della bellezza ha sempre contraddistinto un diverso modo di fare politica; quello dell’impegno ma anche della creatività.
Lo slogan “Peppino è vivo e lotta insieme a noi”, funzionale a seconda del nome che si mette, non descriverà mai il valore di questo sangue pazzo siciliano. Lui è sempre vivo ma siamo noi che non abbiamo ancora imparato a lottare insieme a lui; che con il sorriso è riuscito a oscurare, anche se per poco, la prepotenza e la ferocia di un modello che per anni veniva definito “inesistente”.
Fausto Bisantis